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Il paese di compare Turiddu
Compare Turiddu è oramai una vecchia conoscenza degli italiani. Giovanni Verga facendolo ammazzare nel modo che tutti sanno da compare Alfio, ne ha fatto un personaggio tipico, uno di quei personaggi in cui s'incarna e si rispecchia tutta una regione. Ma se l'amante di Santuzza è conosciuto, nessuno o quasi conosce il nome del paese dove con rapidità forse soverchia, ma drammatica, potente, si svolge il dramma di cui egli fu protagonista.
Il Verga, probabilmente per ragion d'arte, visto che tutto ciò che sa di mistero costituisce sempre una attrattiva per i lettori, conservando su codesto nome un geloso silenzio, non volle nemmeno che si potesse indovinarlo da qualche particolare descrittivo.
Difatti, il paese di compare Turiddu potrebbe essere posto dal lettore tanto in un luogo quanto in un altro della nostra amata Sicilia. Il colore locale non ci perderebbe nulla, e compare Turiddu, compare Alfio, Santuzza, Lola non rimarrebbero per questo meno siciliani, meno riproduzioni vive, fotografie, dei sentimenti e delle passioni della popolazione rusticana della terra del Sole, come Omero chiamava la maggiore delle isole nostre.
Il Manzoni, come si sa, non fece nel suo immortale romanzo il nome del paesello degli sposi e di quel don Rodrigo, il cui «palazzotto sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca sulla cima d'uno dei poggi ond'è sparsa e rivelata quella costiera»; e tacque quello del castello dell'Innominato, scrivendo soltanto che «era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori d'una aspra giogaia di monti», ma il silenzio impostosi per un riserbo che forse nulla giustificava, compensò con la descrizione minuta, esatta, dei luoghi, di talchè ai commentatori del celebre romanzo non fu difficile trovarne i nomi.

Vizzini, una cittadina di circa quindicimila anime, a ponente di Catania, al di là della Giarretta, il principale fiume della Sicilia, non molto distante da Lentini, la patria di Gorgia, il famoso sofista, e da Mineo, il paese dove si svolgono gli avvenimenti impressi a narrare nelle novelle da un altro geniale e forte impegno siciliano, Luigi Capuana. È codesto un tratto di paese tutto interrotto da colline e frastagliato da ampie e belle pianure, dove il grano biondeggia sotto il sole di giugno, la vite si copre di grappoli neri come gli occhi delle giovani contadine che li colgono nelle miti e serene giornate d'autunno, e l'ulivo cresce gigantesco innalzando al cielo i suoi rami fitti e serrati, quasi a formare delle cupole d'un verde pallido. Sino a Francofonte, gli uliveti si alternano ai giardini d'aranci; e a maggio, quando l'albero dalle foglie d'un magnifico verde metallico e dal frutto d'oro, è in fiore, tutto intorno al paese è una fragranza di zàgare acuta, voluttuosa.
Vizzini è una cittadina che come tutte quelle dell'interno della Sicilia ha allo stesso tempo del signorile e del rustico; è allo stesso tempo città e villaggio. Essa conta una miriade di famiglie baronali; ha tutto un esercito di Cavalieri, un titolo che come nel resto dell'isola si dà ai cadetti e ai discendenti di questi, mentre fra le sue mura stenta la vita la gente di campagna: e sull'imbrunire, quando i Signori fanno la loro passeggiata a piedi o in legno (a carrozza), è un imbattersi continuo di drappelli di contadini che ritornano dal lavoro. È fra codesta gente rozza, dalla pelle arsa dal sole, dalle membra asciutte, che dinanzi a lu Signori Baruni o magari dinanzi a Mastro Don Gesualdo si cava rispettosamente il lungo berretto di panno o di lana pronunziando il sacramentale saluto del contadino siciliano: Basu li mani a Voscenza, che il Verga ha cercato e studiato quasi tutti i personaggi delle sue novelle campagnole.
Senza una grande fatica, oggi noi potremmo riconoscere in quei villici i tipi originali da cui il romanziere vizzinese trasse le sue più caratteristiche creazioni. Ecco là compare Turiddu; è facilmente riconoscibile, dall'occhio vivo, ardito, dall'aria franca, risoluta, che ricorda il soldato, quando Turiddu, col suo cappello da bersagliere, faceva girare la testa alle sartine e alle bambinaie della città. Ecco compare Alfio, il mulattiere, con la giacca e i pantaloni di velluto e la fascia di seta rossa intorno alla pancia. Ecco Lola, una bella contadina sui diciotto anni, dai capelli neri, tirati su come quelli d'una monaca e dagli occhi che brillano come punte di pugnali. Ecco Santuzza, non si stenta a riconoscerla in quella contadina che sebbene giovane ed anche belloccia, anche con qualche ruga che comincia a disegnarsi sull'angolo della bocca, sembra che abbia passato i trent'anni. Ma ecco un'altra figura verghiana: compare Cosimo, egli, poveraccio, non guida più la lettiga dacchè le vie consolari sostituite quasi dappertutto nell'isola alle vecchie vie mulattiere, gli rubano il mestiere, soltanto con le sue mule, che una volta con le loro rumorose sonaglie destavano tutti gli echi delle campagne e dei paesi per i quali passavano egli ora trasporta il grano al mulino, che rumoreggia laggiù, in fondo alla valle dei mulini, sulla sponda d'un grosso torrente, che d'inverno, quando la pioggia viene giù a bigoncie, senza misericordia, è un'ira di Dio, specie per i poveretti che hanno lì vicino un pezzetto di terra.
Una giratina per il paese ci metterà dinanzi ad altre macchiette verghiate. Ecco la Lupa «sola come una cagnaccia con quell'andare randagio e sospettoso della Lupa affamata» ecco, allo svoltare una viuzza, Jeli il pastore «che sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela per rattoppare al bisogno le brache e la maniche del giubbone».
Più in là noi passiamo accanto a Maria «coi suoi occhini neri neri»; e quasi dietro di lei, ecco Malpelo, il fanciullo dalla capellatura rossa «che picchia senza pietà, col manico della zappa, il suo asino, povera bestia sbilenca e macilenta». Ma tiriamoci da parte, e nell'angusta via, lasciamo il passo a quel prete grasso e rubicondo, al Reverendo, che s'avvicina gravemente «colla sua bella sottana di panno fine e il tabarro con le rivolte di seta sul braccio». Ecco un'altra figurina, Don Licciu Papa «collo sciabolotto e il berretto gallonato» che sembra voglia ancora gridare come nel bozzetto: «largo alla giustizia».


Era il 1894 ed Emilio del Cerro descriveva così la nostra ridente cittadina in un articolo apparso su «Natura ed Arte». Erano indubbiamente altri tempi, la vita scorreva sicuramente così, nello stesso modo in cui il Verga così minuziosamente e scrupolosamente la descriveva, ma dalla data di pubblicazione di questo articolo ad oggi ne è passato di tempo e di acqua sotto i ponti ne è scorsa abbastanza; tanti sono stati e molti altri ancora saranno i giornalisti che verranno a farci visita, ed in tanti troveranno col decorrere del tempo dei cambiamenti sia all'arredo urbano che alle case o alla viabilità, e quasi tutti si sentiranno autorizzati a emettere sentenze e a sparare condanne. Più di un secolo è passato da quando Del Cerro scrisse quest'articolo e da allora oltre all'acqua, sotto quel ponte si sono susseguite tante di quelle amministrazioni le quali, a torto o a ragione, si sono sentite autorizzate a buttar giù quello, tirar su quell'altro seguendo arbitrariamente un progetto a sentir loro quasi divino; in tanti hanno sbagliato, ed in tanti continuano e continueranno a sbagliare andando avanti così per inerzia.
L'ultimo mandato amministrativo è stato gestito quasi controtendenza, un susseguirsi di positività, una cordata di progetti che hanno rivalutato il nostro paese all'occhio del turista, vedi la Sagra della ricotta, il ritorno delle Verghiane, i concerti, il completamento di opere di ristrutturazione quali la casa Costa, il palazzo Trao, il lascito Rinaldi ed il Torrione, solo per fare qualche esempio. Il nostro "modus vivendi" ha subìto negli ultimi cinque anni, un parziale, lento e graduale cambiamento, siamo entrati nell'ottica giusta, in quell'ottica che debbono avere tutti i cittadini che risiedono in un centro che, grazie alla sua storia, al suo passato, può risollevare la propria economia sfruttando l'unica fonte possibile di guadagno: il turismo. Abbiamo capito, solo ancora in parte, che l'accoglienza è il cardine, il punto di forza per raggiungere il fine, abbiamo appreso che la costanza e la tenacia sono prerogative indispensabili perchè questo progetto vada avanti e si realizzi, ma sappiamo anche che per ottenere tutto ciò abbiamo necessariamente bisogno di aiuti esterni, oltre chiaramente a quelli interni alla comunità, le pubbliche relazioni debbono essere curate nei minimi particolari, i dettagli debbono essere studiati in modo maniacale, perchè se la pubblicità è ancora l'anima del commercio, e noi vogliamo vendere il "prodotto Vizzini", dobbiamo presentare questo prodotto, il nostro prodotto, al potenziale acquirente nel miglior modo possibile.
A tal fine non giova certo l'articolo di Tano Gullo, il quale parla di noi e della nostra città su «La Repubblica» così:

Sicilia - Appello per salvare i luoghi di Verga
Tano Gullo
22/05/2007, La Repubblica, Palermo

Vizzini - è in un cantuccio di piazza Umberto con l'intonaco sfarinato e pieno di crepe. Sembra uno scoglio flagellato dalle onde, eroso dal vento. è la casa dove visse Giovanni Verga a Vizzini.
Una palazzina di tre piani, rimasta, ai tempi, incompiuta per una controversia con il dirimpettaio barone Cannizzaro. Stizze tra blasonati. Giovan Battista Verga Catalano, padre dello scrittore, infatti, discendeva dal ramo cadetto dei baroni di Fontanablanca. E con il collega di sangue blu non si prendeva per niente. Oggi la casa sembra reggersi in piedi per miracolo. Cadente e snaturata. Il portone è sgangherato, orrende tapparelle nascondono le cinque finestre del piano nobile. Tra una finestra e l'altra risaltano ancora tre gigantesche sigle P. N. F. e sotto sempre a caratteri cubitali la scritta per esteso Partito Nazionale Fascista. Una sigla e una parola incastonate in ognuno dei tre spazi tra i balconi. A piano terra un bar e quattro saracinesche abbassate. Desolante. Un altro pezzo della nostra storia che va in rovina.
Possibile che nè la Regione, nè la Provincia, nè il Comune, siano riusciti ad acquisire un simbolo così importante della letteratura siciliana ed europea? Gli amministratori cittadini, che peraltro negli ultimi tempi hanno posto un freno al degrado dirompente, si giustificano rimandando a problemi inerenti i proprietari dell'edificio.

«Gli inquilini della casa di Verga sono diversi - dice l'ex assessore alla Cultura Santo Fraschilla - e ognuno con le sue idee. Tra l'altro nel tempo sono fuoriusciti gli eredi dello scrittore e i nuovi acquirenti non esprimono una volontà comune. Bisognerà comunque trovare il modo di salvaguardare il bene che in qualche maniera appartiene a tutta la collettività». La casa, fabbrica del Verismo, è la prima tappa di un lungo viaggio alla scoperta dei due volti di Vizzini, una cittadina di 8 mila abitanti adagiata su tre colline tra le quali si insinua il fiume Acate: le bellezze ereditate dal passato, gli scempi perpetrati negli anni Sessanta. «Nei cinque anni del primo mandato - dice il sindaco Vito Cortese, fresco di riconferma - abbiamo posto un freno a una situazione di diffusa illegalità. Nei prossimi cinque anni cercheremo di recuperare la nostra identità culturale e architettonica. A cominciare dai luoghi verghiani».

La città delle ventisei chiese, ma solo poche sono ben conservate, tra i centri siciliani è probabilmente quello che ha il più alto numero di saracinesche a pianterreno. Nel clima di laissez faire si sono incuneate in ogni scorcio, anche negli affacci dei palazzi storici. Se ne contano a migliaia. Solo nella piazzetta di Santa Teresa - tra la chiesa omonima e la taverna da «Gna Nunzia» dove Verga ambientò momenti cruciali della «Cavalleria rusticana» - ne abbiamo contato sette. Tutte in lamiera e tutte abbassate a nascondere gli accomodamenti interni. è solo uno dei tanti luoghi letterari con i connotati cambiati; ricordiamo che dentro la Chiesa, Lola augurò la mala Pasqua a Turiddu e nella taverna i due compari si scambiarono il brindisi della morte («Viva il vino spumeggiante...»). Verga nel suo paese natale ha "incastonato" anche «Mastro don Gesualdo», «La lupa», «Jeli il pastore», «Storia di una capinera» e tante novelle. Vicende che scorrono tra le pieghe della vita contadina. L'attaccamento alla «roba» e il possesso della donna. Tutta la vita a guardia della proprietà e dell'onore. E per essi farsi assassini o martiri. Pronti a immolare sentimento e ragione.
La «Cunziria», un declivio a valle del centro abitato, sembra uno di quei paesotti dei film western che i minatori abbandonano quando nelle viscere le pepite cedono il passo ai sassi. Quello che un tempo fu la più importante conceria di pelli della Sicilia, luogo di commerci e di frenetici via vai che fecero gonfiare il paese fino a 14 mila abitanti, è ormai un cumulo di rovine: una ventina di casupole semidiroccate, sommerse dalle ortiche e dai rovi. Ci sono ancora i filari di ficodindia dove Verga inscenò la mortale sfida che vide Turiddu cadere esanime, accoltellato da compare Alfio. Il momento più drammatico della «Cavalleria Rusticana», la novella musicata da Pietro Mascagni che incanta i melomani di tutto il mondo. Un cartello giallo fa riferimento a lavori di cui ci intravedono tracce in qualche facciata. Ma da un paio di anni tutto è bloccato. «L'area - dice Fraschilla - è stata acquisita dalla Provincia che ha appaltato la prima trance di lavori per il recupero, ma purtroppo l'impresa è fallita e tutto è rimasto in alto mare». Una parte della «Cunziria» è stata trasformata in agriturismo. Il recupero di una parte della struttura non compensa però l'amarezza per lo snaturamento di alcuni interni, nella fattispecie alcune grotte trasformate in saloni per banchetti. E che dire poi dei bungalow marroni impiantati nella parte alta del declivio che nulla c'entrano con il contesto storico-ambientale?
Lo scrittore Domenico Seminerio, osannato dalla critica per quel «Senza re nè regno» che lo ha visto esordire sessantenne con Sellerio, insegna Lettere a Caltagirone, ma alla vicina Vizzini è legatissimo se non altro per la sua passione verghiana. «Non voglio entrare nel merito delle questioni burocratiche - dice - ma intendo rimarcare che un intervento per salvaguardare la memoria dei luoghi verghiani vada fatto con urgenza. Vizzini deve diventare il naturale approdo per un turismo culturale. E soprattutto un itinerario obbligato per i viaggi d'istruzione delle scuole. Verga si deve studiare in classe e nei luoghi dei romanzi. Per onor del vero va detto che qualche cosa di significativo è stata già fatta. Basti pensare al Museo dedicato allo scrittore».
Eccolo Palazzo Trao tirato a lucido nel cuore della città vecchia. Al piano terra c'è il Museo degli antichi mestieri. Nelle stanze sfila tutto il repertorio contadino, con qualche pezzo raro, una pionieristica imballatrice di fieno e un ingegnoso setaccio per i cereali. «Siamo agli inizi - dice il direttore Massimo Papa - e c'è tanto da fare. Vogliamo recuperare qualsiasi cosa che appartenga alla cultura materiale del nostro territorio. La gente ha capito e collabora portandoci i reperti che si trova in casa». Alle pareti alcune foto scattate da Verga e quelle tecnicamente perfette ed emotivamente toccanti di Vincenzo Lentini, un fotografo di matrimoni ancora attivo fino a venti anni fa. Le sue immagini degli anni Trenta sono davvero opere d'arte. Volti di contadini e pastori destinati a rivivere i gesti fissati sulla pellicola per l'eternità. Al piano di sopra, il Verga day. I costumi delle sue opere rappresentate in teatro, le locandine, i manoscritti, le prime edizioni di libri. Un bel tuffo in quell'Ottocento pieno di dolori e di speranze. Nelle pieghe della vita di uno dei grandi della letteratura mondiale. Pregevole il recupero degli affreschi sui soffitti, peccato per i pavimenti d'epoca in gran parte sostituiti con marmi.
è ridente Vizzini, battuta dal sole, L'estesa macchia mediterranea e gli uliveti attorno la rendono fiorente. Il paesaggio addolcisce e in qualche modo nasconde gli sfregi dell'agglomerato urbano inferti da una classe politica vorace e rozza. «Per decenni hanno fatto quello che hanno voluto», dice Elio Romeo. E racconta di un sindaco degli anni Sessanta, Matteo Agosta, dottor Jeckill e mister Hyde: da un lato si attivava per le fognature, per le strade e altre opere vitali per il paese e dall'altro distruggeva il teatro («un gioiello») e il delizioso mercato nella chiesa sconsacrata dei padri domenicani per farne uffici e spazi comunali. Romeo racconta inoltre delle origini, che risalirebbero ai tempi dei Siculi (ma l'abate Vito Amico, autore del prezioso «Primo dizionario topografico della Sicilia», ristampato da Sigma, data la nascita del paese ai tempi dei saraceni). E ancora della tante peripezie di una città passata di mano in mano e più volte riscattata a caro prezzo dagli abitanti. Adesso ci vorrebbe un altro riscatto. Dal dominio delle brutture.


Analizzando l'articolo nel suo contesto sono arrivato ad una conclusione: l'autore ha voluto sensibilizzare il lettore nei confronti del paese del Verga, parlando di degrado ambientale, di scempi all'arredo urbano e di costruzioni abusive ma allo stesso tempo ha saturato il suo articolo di inesattezze che da vizzinese vorrei puntualizzare.
Ad onor del vero buona parte delle brutture descritte dall'autore sono davvero inguardabili, ma credo che da buon giornalista, il nostro caro visitatore abbia enfatizzato ed ingigantito un po' le cose.

Partiamo proprio dalle origini, la nascita del nostro caro paese, l'autore fa riferimento a l'abate Vito Amico che nel suo «Primo dizionario topografico della Sicilia» dà i natali del borgo al tempo dei saraceni mandando così a quel paese, solo per fare qualche esempio, Ippolito Cafici, archeologo, che in contrada Tre Canali rinvenne un "ripostiglio" oggi esposto nel museo Paolo Orsi di Siracusa, risalente alla tarda età del bronzo; stessa sorte subisce, padre Ignazio Noto, il quale legando Vizzini con la «Bidis oppidum» delle Verrinae (70 a.C.), di Cicerone, prende una grandissima cantonata.
Credo che di esempi e cantonate così eclatanti ne potrei citare a centinai e tutti farebbero rinsavire il nostro caro giornalista che di cantoni e cantonate credo ne abbia prese a dismisura, tanto che prosegue il suo articolo descrivendo Vizzini come «la città delle ventisei chiese», pensate ne ha contate ben 26. La cosa mi ha fatto un po' riflettere e allora ho cercato di far mente locale e girando virtualmente il mio caro paese ho cominciato a contarle, risultato sono arrivato al numero 26 tenendo conto della chiesa della Madonna dei Campi che si trova a Vizzini Scalo, la chiesa del "Pitraru" che si trova nella Valle dei mulini, la chiesa di Sant'Ippolito in piazza Umberto Iº, sconsacrata ad inizio secolo per far posto alla prima scuola elementare passata poi ad ospitare l'allora ospedale e sede ancora oggi del Circolo Verga e Società Operaia, la chiesa di San Nicola anch'essa inesistente, la chiesa della Maddalena dove oggi si produce dell'ottimo pane, dei buoni dolci e gustosa focacceria quindi anch'essa inesistente, la chiesa del Rosario, alla quale fa riferimento il nostro caro intervistato Elio Romeo, oggi sede della scuola materna quindi anche questa inesistente, e per concludere la chiesa di San Michele, recentemente sede di lavori di ripristino ma sconsacrata. Certamente avrò dimenticato qualche altra chiesa, ormai inesistente come le precedenti, con sede fuori centro abitato, ma credo che siamo lì. E due.
Veniamo adesso alla descrizione della casa Verga: «è in un cantuccio di piazza Umberto con l'intonaco sfarinato e pieno di crepe. Sembra uno scoglio flagellato dalle onde, eroso dal vento, cadente e snaturata, il portone è sgangherato, orrende tapparelle nascondono le cinque finestre del piano nobile. A piano terra un bar (forse la visita è stata effettuata in un giorno di chiusura di uno dei due bar che si trovano al piano terra) e quattro saracinesche abbassate. Desolante». Desolante davvero la descrizione che il Gullo fa dell'edificio, per non parlare poi dell'intervento dell'assessore, il quale, come a volersi giustificare per lo stato attuale dell'edificio, condanna i nuovi proprietari, dimenticando tra l'altro di menzionare tra di essi anche un assessore tuttora in carica, per lo stato attuale di "abbandono" dello stabile.
[Foto palazzo Verga]
Vorrei sbagliarmi ma siamo ben lungi, con questa mole di brutture così abbondantemente decantate dall'autore, dal sensibilizzare l'opinione pubblica spronandola ad una più corretta salvaguardia dei luoghi verghiani, credo invece di aver assistito solamente a un massacro, metaforico, di quello che resta dei luoghi verghiani. Gli stupri all'arredo urbano, le violenze ai palazzi nobiliari, gli ammodernamenti dei "catuoi" sventrati per far posto a più moderni garage con saracinesche in bella vista, sono ormai presenti su tutto il territorio siciliano, e credo che nessuna amministrazione comunale riuscirà a cancellare tutto questo, la politica del laissez faire è stata una realtà gestionale delle pubbliche amministrazioni di buona parte dell'isola e di questo ormai ce ne dobbiamo fare una ragione, in diverse occasioni ho puntato il dito verso chi ha contribuito a tutto ciò, ma credo che ormai i giochi sono stati fatti.
Un articolo del genere, il quale presenta un quadro sfalsato della realtà locale, non fa altro che giocare a nostro sfavore, in quanto dà un'idea errata al lettore, il quale da potenziale turista può optare per un'altra meta un po' meno "desolante" della nostra. Inviterei dunque i prossimi giornalisti, intenzionati a venire a farci visita per poi poter scrivere di noi e del nostro paese, di metterci più cuore nei propri scritti e avere un po' più rispetto dell'ospitalità, sacra presso certi popoli.
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11/07/2007 | 8810 letture | 0 commenti
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