Terza pagina
L'emigrazione e i suoi risvolti
Dopo aver attentamente letto l'articolo redatto dal caro Doctor, mi sono ricordato
di aver visto e letto, fra tutte le scartoffie che mi diletto a collezionare, un
articolo tratto da «La Tribuna Illustrata» del 15 settembre 1940.
L'articolo tratta un tema importante, il probabile successo personale a seguito
dello spostamento di risorse umane dalle zone più povere a quelle più ricche della
terra.
Un antico detto del nostro idioma ci conferma quanto la povera gente sperava nella propria riuscita come scopo finale di quel viaggio intrapreso: «Pirchì nu nescia arrinescia». Vi auguro una buona lettura.
Da «La Tribuna Illustrata» del 15 settembre 1940:
La voglia di uscire costringeva tanti a lasciare la terra natia o la necessità di ricercare l'Eden. L'emigrazione. Un fenomeno che tanta parte ha avuto nella trasformazione sociale, morale ed economica del nostro paese in generale ed in particolar modo del Meridione.
Prima dell'Unità d'Italia l'emigrazione in Sicilia era completamente sconosciuta, solo quando nel 1860 i siciliani consegnarono ai "garibaldini" la Sicilia, senza porre alcuna condizione, abdicando di fatto ad una plurisecolare stato di sovranità, iniziò il loro calvario. Da lì a poco sarebbero stati tartassati da esose imposte per il risanamento del Regno Piemontese, senza ricevere contropartita alcuna, si videro imposta la leva obbligatoria, che strappava di fatto braccia all'agricoltura e all'economia famigliare, senza comunque ricevere nulla in cambio. Il Regno Piemontese cercò anche di togliere ai siciliani quel poco di denaro liquido che circolava, sopprimendo gli enti ecclesiastici e vendendo i conventi e le terre a loro annesse agli stessi siciliani, evitando così accumuli di capitali tali da dare respiro alle attività economiche dell'isola.
Siamo alla fine dell'800, i siciliani dissanguati dalle tasse, schiacciati da un regime nemico e ridotti quasi alla fame si organizzano nei Fasci Siciliani dei Lavoratori, un'organizzazione nata per riscattarsi dallo stato di miseria in cui riversava il popolo siciliano, organizzazione che venne però cancellata e repressa nel sangue. A questo punto sconfitti, amareggiati e traditi i siciliani si danno alla fuga, lasciando in massa la loro terra amata, lasciandosi dietro oltre al passato da dimenticare anche gli affetti più cari, trasferendosi in America, diventando così per la prima volta nella loro storica vita da isolani: emigrati.
Partirono in tanti dalla Sicilia senza un centesimo in tasca, privi di alcuna cultura e analfabeti, ma carichi di tenacia e stracolmi di quelle naturali ed innate capacità nel riuscire meglio di chiunque altro, cosa che ci ha sempre contraddistinto nei confronti dei nostri oppressori. Vivendo all'estero, in ambienti privi di ostilità nei nostri confronti ci siamo realizzati, abbiamo dato il massimo delle nostre innate capacità, rivestendo così cariche importanti e di prestigio sia nel campo economico che in quello socio-politico, ma mai dico mai abbiamo dimenticato i nostri usi ed i nostri costumi; le nostre origini sono state ben conservate nei nostri cuori e ne abbiamo fatto motivo di vanto, perchè siamo pur sempre dei siciliani.
Un antico detto del nostro idioma ci conferma quanto la povera gente sperava nella propria riuscita come scopo finale di quel viaggio intrapreso: «Pirchì nu nescia arrinescia». Vi auguro una buona lettura.
Da «La Tribuna Illustrata» del 15 settembre 1940:
Quarant'anni fa, in un capannone di legno, a Morigallo, in Valpolcevera, una rudimentale industria di sapone iniziava la sua coraggiosa e difficile attività: ne era promotore un giovane oscuro, dotato di pochissime risorse ma di grande volontà, che nella sua piccola fabbrica viveva con passione tutta la giornata, dall'alba al tramonto, e spesse volte anche la notte, fra i pochi attrezzi e i non numerosi recipienti. Gli abitanti della zona osservavano con indifferenza, forse con scetticismo, il modesto tentativo di organizzazione industriale, che era troppo povero di risorse per parlare alla loro convinzione e alla loro fantasia. Taluno forse, pensò anche alla inutilità di quei tentativi senza mezzi finanziari e al sicuro insuccesso che entro pochi mesi sarebbe sopraggiunto a stroncare le illusioni, facendo ricrescere le erbacce dell'abbandono attorno al capannone di legno.Il tema cardine di questo articolo è il viaggio verso l'ignoto, l'abbandono delle campagne, delle proprie terre, dei propri averi, dei propri amori, delle famiglie e degli amici, allo volta di una nuova terra, per una vita nuova, piena di speranze che spesse volte si concretizzavano, come nel caso del nostro caro sig. Vittorio Lo Faro.
Invece passarono i mesi e quel giovane lavoratore, che non aveva ancora un nome conosciuto, seppe resistere e continuare; poi passarono gli anni e un bel giorno il capannone di legno scomparve. Esso scomparve, però, per lasciare posto e attività ad un edificio, cioè ad un vero stabilimento che anche con i suoi muri saldi e la sua pesante attrezzatura cominciava a testimoniare della consistenza ormai raggiunta da quell'iniziativa industriale. Quel giorno il giovane creatore dell'industria saponiera ligure, affermò il suo nome. Egli non era più uno sconosciuto, era Vittorio Lo Faro. Allora si ammirò il suo sforzo così tenace che pareva persino caparbio; e allora si apprese che Vittorio Lo Faro, nato nel 1876 a Vizzini, in provincia di Catania, dopo un breve corso tecnico era stato allievo macchinista navale, meccanico presso le officine Cravero alla Foce e commesso di un'altra ditta industriale: che, cioè, egli era stato l'uomo solo, sorretto soltanto dalla sua volontà e della sua intelligenza, che dal nulla aveva saputo creare se stesso e un'industria nuova.
Sono queste vicende di pochi anni addietro e dimostrano come i creatori di industrie che vengono dalla capanna non siano soltanto leggende d'America: a ben vedere essi sono soprattutto una realtà italiana. Ed ecco infatti Vittorio Lo Faro, dopo quarant'anni dal tempo difficile, quasi eroico e così bello, del capannone di legno, alla testa delle due industrie saponiere italiane che validamente si oppongono alla produzione e alla importazione straniera: lo stabilimento Lo Faro di Genova-San Quirino e la Società Sirio di Milano produttrice di saponi e profumerie. Nel mercato dei saponi e delle glicerine e nel vasto campo del consumo oggi il nome Lo Faro è garanzia di qualità eccellente. Oltre alle due industrie saponiere, il grand'Uff. Lo Faro presiede anche la Società Anonima Macinazione di Brandizzo; partecipa con senso pratico e realizzatore ad imprese dell'industria edilizia ed è presente dovunque la sua esperienza e la sua capacità siano richieste nello sforzo costante e meritorio di potenziare le attività industriali. All'ordinamento sindacale e corporativo egli partecipa attivamente come componente del Direttorio del Sindacato Fascista Industriale di prodotti chimici e quale delegato all'Assemblea nonchè Consigliere della Federazione Nazionale. Durante la guerra mondiale (prima guerra mondiale n.d.r.), col plauso generale degli associati e delle autorità, ricoprì la carica di Amministratore delegato del Comitato Italiano Saponieri che aveva l'importante e delicato compito di rifornire la Nazione di tutte la materie prime necessarie all'industria saponiera ed oggi è Vicepresidente della Società Aprovvigionamenti Industrie Saponi che ha dal Governo Fascista lo stesso mandato. Ogni attività di propaganda e di affermazione nazionale lo ha trovato e lo trova in linea con fresco entusiasmo, con giovanile volontà di opere: come pure la necessità del prossimo, i bisogni degli umili hanno avuto in lui sempre una comprensione fraterna, umana e sociale, che praticamente si è manifestata col versamento di centinaia di migliaia di lire, destinate a tutte le forme di assistenza specialmente per l'infanzia e le Colonie Fasciste. Egli ha voluto celebrare la fondazione dell'Impero, rimettendo al Duce la somma di mezzo milione di lire, ricevendo così il particolare compiacimento del Capo.
Il regime fascista, che premia ed onora questi lavoratori instancabili, questi creatori di ricchezza nazionale, in occasione del 28 Ottobre scorso, ha conferito al grand'Uff. Lo faro, la più bella onorificenza che possa toccare a chi provenendo dal lavoro, sa meglio comprendere le necessità ed i bisogni della classe operaia: lo ha nominato Cavaliere del Lavoro. E la cittadinanza genovese, che segue con affettuosa ammirazione Vittorio Lo Faro e che conosce direttamente le sue iniziative e le sue opere di bene, si è compiaciuta dell'alto riconoscimento che ha premiato il pioniere dell'industria ed il cittadino esemplare.
La voglia di uscire costringeva tanti a lasciare la terra natia o la necessità di ricercare l'Eden. L'emigrazione. Un fenomeno che tanta parte ha avuto nella trasformazione sociale, morale ed economica del nostro paese in generale ed in particolar modo del Meridione.
Prima dell'Unità d'Italia l'emigrazione in Sicilia era completamente sconosciuta, solo quando nel 1860 i siciliani consegnarono ai "garibaldini" la Sicilia, senza porre alcuna condizione, abdicando di fatto ad una plurisecolare stato di sovranità, iniziò il loro calvario. Da lì a poco sarebbero stati tartassati da esose imposte per il risanamento del Regno Piemontese, senza ricevere contropartita alcuna, si videro imposta la leva obbligatoria, che strappava di fatto braccia all'agricoltura e all'economia famigliare, senza comunque ricevere nulla in cambio. Il Regno Piemontese cercò anche di togliere ai siciliani quel poco di denaro liquido che circolava, sopprimendo gli enti ecclesiastici e vendendo i conventi e le terre a loro annesse agli stessi siciliani, evitando così accumuli di capitali tali da dare respiro alle attività economiche dell'isola.
Siamo alla fine dell'800, i siciliani dissanguati dalle tasse, schiacciati da un regime nemico e ridotti quasi alla fame si organizzano nei Fasci Siciliani dei Lavoratori, un'organizzazione nata per riscattarsi dallo stato di miseria in cui riversava il popolo siciliano, organizzazione che venne però cancellata e repressa nel sangue. A questo punto sconfitti, amareggiati e traditi i siciliani si danno alla fuga, lasciando in massa la loro terra amata, lasciandosi dietro oltre al passato da dimenticare anche gli affetti più cari, trasferendosi in America, diventando così per la prima volta nella loro storica vita da isolani: emigrati.
Partirono in tanti dalla Sicilia senza un centesimo in tasca, privi di alcuna cultura e analfabeti, ma carichi di tenacia e stracolmi di quelle naturali ed innate capacità nel riuscire meglio di chiunque altro, cosa che ci ha sempre contraddistinto nei confronti dei nostri oppressori. Vivendo all'estero, in ambienti privi di ostilità nei nostri confronti ci siamo realizzati, abbiamo dato il massimo delle nostre innate capacità, rivestendo così cariche importanti e di prestigio sia nel campo economico che in quello socio-politico, ma mai dico mai abbiamo dimenticato i nostri usi ed i nostri costumi; le nostre origini sono state ben conservate nei nostri cuori e ne abbiamo fatto motivo di vanto, perchè siamo pur sempre dei siciliani.
02/04/2009 | 5299 letture | 0 commenti
di La Civetta
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