I racconti di Doctor
La devozione per San Giuseppe
All'età di quattro anni fui affetto da una bruttissima tonsillite acuta
febbrile, le tonsille erano gonfie e ricoperte da zaffi di pus quasi a membrana
tanto da far temere una difterite. L'eventuale croup difterico - ruppu dalle
nostre parti - era una malattia grave e a prognosi riservata. Grande fu la preoccupazione
dei miei anche perchè a quel tempo tutto si curava in casa ed in un paese
lontano da specialisti e da ospedali.
Tra le amorevoli cure dell'ottimo dottor Gino Prampolini, amico carissimo di mio padre, le punture che mi praticava quattro volte al giorno donna Pippina a cucca, che per l'occasione la notte dormiva a casa nostra, e tra le preghiere di mia madre e delle mie zie rivolte ai vari Santi riuscii guarire.
Tra i Santi interessati c'era anche San Giuseppe e mia madre aveva promesso che il prossimo venturo 19 marzo avrebbe organizzato un pranzo di beneficenza per i poveri, brutto termine poveri - quasi classista - meglio utilizzare il termine bisognosi, e ogni anno per San Giuseppe avrebbe fatto preparare tre grandi cucciddati di pane da regalare a tre bisognosi. Solo il cielo sa quanti bisognosi c'erano in paese negli anni cinquanta!
Ero piccolo allora, ma ricordo in maniera indelebile quel grandioso pranzo di San Giuseppe. Per i tre bisognosi, un maschio, una femmina ed un ragazzino, era stata imbandita una tavola apposita, guarnita di tutto punto con stoviglie buone e fiori. La stanza da pranzo era guarnita con piante e fiori (mia madre era fissata con i fiori di mandorlo) in onore di questi tre invitati che rappresentavano San Giuseppe, la Madonna e il Bambino Gesù. Una grande tavolata era stata apparecchiata al centro per i vari ospiti, parenti, amici, vicini di casa , invitati senza pregiudizi di censo o di casta, che partecipavano al pranzo assaggiando qualcosa.
Le pietanze preparate erano in numero non inferiore a 19, credo che tutto il pranzo fosse di magro, infatti non ricordo pietanze di carne: si cominciava con l'immancabile pasta col finocchietto riccio, acciughe e muddica abbrustolita, minestra con pasta fatta in casa condita con ceci o macco di fave, pasta condita col sugo di asparagi, frittate varie con asparagi, amareddi, piselli e fave verdi, carciofi ripieni con muddica, prezzemolo, pezzettini di aglio e formaggio, cucuzza baffa in agrodolce, insalata di arance con cipollina fresca e sale, formaggi vari e ricotta, grandi cucciddati di San Giuseppe (pane di pasta comune, di forma rotonda con incisioni torno torno che ne fanno degli uncini, cricchi) e vino buono. Concludevano il pranzo i dolci.
Le classiche sfince - il nome è di derivazione latina, spongia, cioè spugna -: frittelle, morbide, spugnose, asimmetriche che venivano e sono preparate nelle due varietà con l'acciuga o meno frequentemente con la ricotta e spolverate di zucchero semolato; mia madre ed una delle mie zie preparavano anche le sfinci d'ova di cui io ho solo memoria gustativa e olfattiva.
Altro dolce tipico erano le cassate del Patriarca, simili alle cassate di Pasqua, ma più grandi di dimensioni, leggermente diverse nella preparazione della pasta di sostegno e nel tempo di cottura al forno, contenevano una gran quantità di ricotta. Non poteva mancare la pignoccata: dadini di impasto particolare, fritti, disposti a piramide o a cucciddatu e cosparsi di miele o di zucchero caramellato. A fine pranzo tutto ciò che non era stato consumato delle varie pietanze veniva impachettato e consegnato insieme a un bel cucciddatu di San Giuseppe ad ognuno dei tre bisognosi invitati.
Negli anni successivi, non so per quanti anni, mio padre per San Giuseppe faceva preparare tre cucciddati grandi da regalare a tre bisognosi del paese. Fino quando abitammo in paese non ci fù difficoltà alcuna sia nella preparazione che nella destinazione dei cucciddati, il problema sorse allorchè ci trasferimmo a Catania. Chi ci avrebbe confezionato i cucciddati, dove trovare i bisognosi? Mio padre pragmaticamente risolse il tutto facendosi preparare i grandi cucciddati presso un forno a pietra di via Cavalieri e facendoli consegnare direttamente alla casa di riposo Mons. Ventimiglia di piazza Bovio che ospitava anziani bisognosi. Mi raccontano che a Vizzini vigeva l'usanza di nominare un bisognoso «Patriarca San Giuseppe per tutto l'anno». Veniva a lui affidato un quadro di San Giuseppe ed ogni giorno aveva facoltà di scegliere presso quale famiglia andare a mangiare, bastava che il giorno precedente bussasse in una casa, lasciasse il quadro, che regolarmente veniva appeso al muro ed automaticamente si autoinvitava a pranzo per il giorno successivo presso quella famiglia. Terminato il pranzo il "San Giuseppe" si ritirava dal muro il quadro pronto ad appenderlo presso un'altra famiglia per il giorno successivo.
In questo giro annuale c'erano "Patriarchi" buoni, altri particolarmente pretenziosi, altri ancora prendevano di mira una famiglia dove si erano trovati bene e si auoinvitavano spesso per cui da ospiti graditi diventavano 'na camurria, con tutto il rispetto per San Giuseppe. Donde il termine, ancora in uso a Vizzini, per definire il comportamento di una persona fastidiosa che vuole essere sempre presente e al centro dell'attenzione a sentenziare variando diverse postazioni: mincia ci appinniu 'u quadru! In questo caso si invertivano i ruoli: il carnefice appendeva il quadro e la vittima, un vero santo, si sorbiva la presenza e le chiacchiere spesso sconclusionate dell'altro!
Caramente,
Vostro doctor
Tra le amorevoli cure dell'ottimo dottor Gino Prampolini, amico carissimo di mio padre, le punture che mi praticava quattro volte al giorno donna Pippina a cucca, che per l'occasione la notte dormiva a casa nostra, e tra le preghiere di mia madre e delle mie zie rivolte ai vari Santi riuscii guarire.
Tra i Santi interessati c'era anche San Giuseppe e mia madre aveva promesso che il prossimo venturo 19 marzo avrebbe organizzato un pranzo di beneficenza per i poveri, brutto termine poveri - quasi classista - meglio utilizzare il termine bisognosi, e ogni anno per San Giuseppe avrebbe fatto preparare tre grandi cucciddati di pane da regalare a tre bisognosi. Solo il cielo sa quanti bisognosi c'erano in paese negli anni cinquanta!
Ero piccolo allora, ma ricordo in maniera indelebile quel grandioso pranzo di San Giuseppe. Per i tre bisognosi, un maschio, una femmina ed un ragazzino, era stata imbandita una tavola apposita, guarnita di tutto punto con stoviglie buone e fiori. La stanza da pranzo era guarnita con piante e fiori (mia madre era fissata con i fiori di mandorlo) in onore di questi tre invitati che rappresentavano San Giuseppe, la Madonna e il Bambino Gesù. Una grande tavolata era stata apparecchiata al centro per i vari ospiti, parenti, amici, vicini di casa , invitati senza pregiudizi di censo o di casta, che partecipavano al pranzo assaggiando qualcosa.
Le pietanze preparate erano in numero non inferiore a 19, credo che tutto il pranzo fosse di magro, infatti non ricordo pietanze di carne: si cominciava con l'immancabile pasta col finocchietto riccio, acciughe e muddica abbrustolita, minestra con pasta fatta in casa condita con ceci o macco di fave, pasta condita col sugo di asparagi, frittate varie con asparagi, amareddi, piselli e fave verdi, carciofi ripieni con muddica, prezzemolo, pezzettini di aglio e formaggio, cucuzza baffa in agrodolce, insalata di arance con cipollina fresca e sale, formaggi vari e ricotta, grandi cucciddati di San Giuseppe (pane di pasta comune, di forma rotonda con incisioni torno torno che ne fanno degli uncini, cricchi) e vino buono. Concludevano il pranzo i dolci.
Le classiche sfince - il nome è di derivazione latina, spongia, cioè spugna -: frittelle, morbide, spugnose, asimmetriche che venivano e sono preparate nelle due varietà con l'acciuga o meno frequentemente con la ricotta e spolverate di zucchero semolato; mia madre ed una delle mie zie preparavano anche le sfinci d'ova di cui io ho solo memoria gustativa e olfattiva.
Altro dolce tipico erano le cassate del Patriarca, simili alle cassate di Pasqua, ma più grandi di dimensioni, leggermente diverse nella preparazione della pasta di sostegno e nel tempo di cottura al forno, contenevano una gran quantità di ricotta. Non poteva mancare la pignoccata: dadini di impasto particolare, fritti, disposti a piramide o a cucciddatu e cosparsi di miele o di zucchero caramellato. A fine pranzo tutto ciò che non era stato consumato delle varie pietanze veniva impachettato e consegnato insieme a un bel cucciddatu di San Giuseppe ad ognuno dei tre bisognosi invitati.
Negli anni successivi, non so per quanti anni, mio padre per San Giuseppe faceva preparare tre cucciddati grandi da regalare a tre bisognosi del paese. Fino quando abitammo in paese non ci fù difficoltà alcuna sia nella preparazione che nella destinazione dei cucciddati, il problema sorse allorchè ci trasferimmo a Catania. Chi ci avrebbe confezionato i cucciddati, dove trovare i bisognosi? Mio padre pragmaticamente risolse il tutto facendosi preparare i grandi cucciddati presso un forno a pietra di via Cavalieri e facendoli consegnare direttamente alla casa di riposo Mons. Ventimiglia di piazza Bovio che ospitava anziani bisognosi. Mi raccontano che a Vizzini vigeva l'usanza di nominare un bisognoso «Patriarca San Giuseppe per tutto l'anno». Veniva a lui affidato un quadro di San Giuseppe ed ogni giorno aveva facoltà di scegliere presso quale famiglia andare a mangiare, bastava che il giorno precedente bussasse in una casa, lasciasse il quadro, che regolarmente veniva appeso al muro ed automaticamente si autoinvitava a pranzo per il giorno successivo presso quella famiglia. Terminato il pranzo il "San Giuseppe" si ritirava dal muro il quadro pronto ad appenderlo presso un'altra famiglia per il giorno successivo.
In questo giro annuale c'erano "Patriarchi" buoni, altri particolarmente pretenziosi, altri ancora prendevano di mira una famiglia dove si erano trovati bene e si auoinvitavano spesso per cui da ospiti graditi diventavano 'na camurria, con tutto il rispetto per San Giuseppe. Donde il termine, ancora in uso a Vizzini, per definire il comportamento di una persona fastidiosa che vuole essere sempre presente e al centro dell'attenzione a sentenziare variando diverse postazioni: mincia ci appinniu 'u quadru! In questo caso si invertivano i ruoli: il carnefice appendeva il quadro e la vittima, un vero santo, si sorbiva la presenza e le chiacchiere spesso sconclusionate dell'altro!
Caramente,
Vostro doctor
19/03/2007 | 5707 letture | 0 commenti
di doctor
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