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I racconti di Doctor
Scrivono di noi -Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo
da "L'olivo e l'olivastro"
ed. Mondadori

L'accompagna ora nel viaggio un custode amoroso di memorie, aure, realtà, cimeli verghiani.
Oltre la piana degli aranci, il Simeto delle ambre e delle anguille, lasciano la costa, s'inoltrano per valloni e colli dentro la campagna densa, le terre forti, i fitti ulivi, vanno per la strada di Lentini del pantano e della malaria, Francofonte dei tarocchi, vanno per contrade, passi, chiuse, vigne che evocano creature, racconti, vicende del romanzo: Scordìa, Licodìa Eubea, Donninga, Mangalavite, Passanito, Budarturo, Camemi, Paradiso, Poggio Impeso.

"Nel burrone, fra mezzo i due monti, sembrava di entrare in una fornace; e il paese in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato tra rupi enormi, minato da caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro, rugginoso, sembrava abbandonato, senza un'ombra, con tutte le finestre spalancate nell'afa, simili a tanti buchi neri, le croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso."

Entrano nel paese per la via dei baroni, la strada incassata come l'alveo d'un torrente, bordata di bastioni, palazzi da cui piovono voci, richiami, saluti.
"Giovanni, Giovanni" chiamano da una parte, dall'altra, dai balconi panciuti, finestre, terrazzini, vecchi con berretta in testa, bastone nelle mani, vecchie in gramaglie stinte. Lui volge in alto la testa, gli occhiali balenanti, risponde, dà notizie, ragguagli a quei fantasmi, ai personaggi rimasti imprigionati nei palazzi, risponde ai Rubiera, Sganci, Zacco, Mendola, Limoli, Cirmena.

Un paese intatto, fermo, dal tempo del romanzo mai più sfiorato da eventi, mutamenti, mai toccato da interessi, una scenografia fedele alla restituzione dell'autore, un'Ilio ritrovata sulla scorta delle parole d'un poeta.

Arrivano alla Piazza Grande in cui s'affacciano il Municipio, Palazzo La Rocca, Barresi e Verga dal monumentale prospetto, dal grandioso progetto interrotto al primo piano, la piazza da cui si vede l'altopiano dell'Alia, il monte Lauro, si diramano le strade verso l'alto, il basso, s'inerpica la scaletta che porta a palazzo Trao o Ventimiglia. Vanno in via Màsera, alla casa di Giovanni.
Il padre novantenne, don Raimondo, stava in attesa in uno stanzone grande. Saluta giosamente il figlio, vuole sapere chi è il forestiero. Racconta che nella banda del paese, nel teatro comunale, suonava il bombardino, il basso d'armonia, il trombone cantabile. Ricorda tutti i Verga, lo scrittore, il fratello Mario, la cognata donna Lidda, ne frequentava la casa.
"Mettiti coi migliori e rimettici le spese" sentenzia. La cognata era una donna così grassa, ricorda, che morta non entrava nella cassa: l'hanno spinta dentro a forza.

Giovanni ha avuto in dono da un nipote di Verga le foto che lo scrittore aveva fatto per diletto a Vizzini, a Catania, in continente. Gliene mostra alcune: strade, quartieri di paese, una mendicante con in braccio, alle gonne i suoi bambini, la campagna dal nome arido di Tèbidi, serve, contadini, pastorelli neri, bruciati dal sole, in posa e smarriti in mezzo a campi nudi o avanti usci di casa, pronti, dopo lo scatto a rientrare; immagini di Nedde, Jeli, Lupe, Malpeli, Deodate, di tanti piccoli e magri sopraffatti che per quei paesi, per quelle campagne lo scrittore aveva conosciuto e raccontato, immagini della grassa donna Lidda, d'altri ricchi di Vizzini.

Vanno nella stradina Santa Teresa, dov'è l'osteria della sfida, la chiesa della confessione della Cavalleria rusticana. In questo teatrino ricostruito - c'è anche la casa di Santa, di Lola - la realtà bianca e nera di Vizzini, dei racconti, un poco si colora, indossa costumi tipici, intercala parole dialettali, esibisce passioni. Qui Verga sembra che posi lo sguardo sul suo mondo quasi come quello d'estraneo di Mèrimèe sulle sigaraie e i toreri di Siviglia. La musica poi di melodramma, di Bizet, di Mascagni, aggrazia ancor più i due racconti, seduce il pubblico, glorifica gli autori.

Arrivano ai margini del paese, dov'è il vallone del torrente e di fronte, sulla spianata, il gruppo di vecchie case della Canzirìa, la macchia di fichidindia in cui si svolse il duello, Alfio piantò la lama del coltello nella gola di Turiddu. Dall'altra parte, a occidente, sotto la Valle dei Mulini, è la cava rossa di Malpelo, il racconto senza luce, colore, di nuovo tremendo, ancora circolare.

"Malpelo si chiamava così perchè aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perchè era un ragazzo malizioso e cattivo."
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12/07/2005 | 3906 letture | 0 commenti
di doctor
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