Fisco e Finanza
Rischio bancarotta per i finanziatori di srl in perdita
Rischiano l'imputazione di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto gli
amministratori/soci di una srl (società a responsabilità limitata) che continuano
a finanziare con mezzi propri la società in perdita perenne al fine di consentire
la prosecuzione dell'attività anzichè chiederne il fallimento. A stabilirlo è la
Corte di Cassazione, sezione V penale, con la sentenza n. 32899 del 26 agosto 2011.
Gli amministratori/soci di una srl, in presenza di un'attività poco redditizia che produceva perdite fin dal primo anno, si erano astenuti dal richiedere tempestivamente il fallimento della propria società continuando a finanziarla, aggravando ulteriormente la posizione debitoria. I due imprenditori venivano condannati sia in primo grado che in appello per bancarotta semplice per aggravamento del dissesto.
La tesi difensiva ha puntato sull'errata definizione della nozione di dissesto inteso nel senso di disordine difficilmente sanabile nell'attività della società. Invece la gestione della società risultava del tutto regolare e corretta così come la tenuta della contabilità. I continui finanziamenti dei soci non erano altro che la conseguenza della fiducia che nutrivano nel progetto imprenditoriale e non potevano mai essere considerati causa di aggravamento del dissesto.
Per la Suprema Corte lo stato di dissesto costituisce, non tanto una condizione di generico disordine dell'attività della società, quanto «una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d'atto dell'impossibilità di proseguire l'attività, può comportare l'aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l'inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori». Secondo gli ermellini «i giudici di merito hanno correttamente evidenziato come fin dall'inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell'attività imprenditoriale dei due imputati, con l'accumulo di perdite che avevano eroso l'intero capitale sociale già nel primo anno. E hanno rilevato, con motivazione adeguata ed esente da vizi logici, come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell'attività, in mancanza di un'attenta valutazione delle reali prospettive dell'impresa e di interventi di ricapitalizzazione».
Irrilevanti sono risultate, anche, le immissioni di fondi personali dei soci in quanto avvenute sotto forma di finanziamento alla società anzichè di aumento di capitale, aggravando ulteriormente la posizione debitoria della stessa divenuta per tal motivo irrecuperabile.
Però c'è da considerare che la fattispecie in questione presupporrebbe la preesistenza di uno stato di insolvenza ovvero l'incapacità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.
Gli amministratori/soci di una srl, in presenza di un'attività poco redditizia che produceva perdite fin dal primo anno, si erano astenuti dal richiedere tempestivamente il fallimento della propria società continuando a finanziarla, aggravando ulteriormente la posizione debitoria. I due imprenditori venivano condannati sia in primo grado che in appello per bancarotta semplice per aggravamento del dissesto.
La tesi difensiva ha puntato sull'errata definizione della nozione di dissesto inteso nel senso di disordine difficilmente sanabile nell'attività della società. Invece la gestione della società risultava del tutto regolare e corretta così come la tenuta della contabilità. I continui finanziamenti dei soci non erano altro che la conseguenza della fiducia che nutrivano nel progetto imprenditoriale e non potevano mai essere considerati causa di aggravamento del dissesto.
Per la Suprema Corte lo stato di dissesto costituisce, non tanto una condizione di generico disordine dell'attività della società, quanto «una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d'atto dell'impossibilità di proseguire l'attività, può comportare l'aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l'inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori». Secondo gli ermellini «i giudici di merito hanno correttamente evidenziato come fin dall'inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell'attività imprenditoriale dei due imputati, con l'accumulo di perdite che avevano eroso l'intero capitale sociale già nel primo anno. E hanno rilevato, con motivazione adeguata ed esente da vizi logici, come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell'attività, in mancanza di un'attenta valutazione delle reali prospettive dell'impresa e di interventi di ricapitalizzazione».
Irrilevanti sono risultate, anche, le immissioni di fondi personali dei soci in quanto avvenute sotto forma di finanziamento alla società anzichè di aumento di capitale, aggravando ulteriormente la posizione debitoria della stessa divenuta per tal motivo irrecuperabile.
Però c'è da considerare che la fattispecie in questione presupporrebbe la preesistenza di uno stato di insolvenza ovvero l'incapacità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.
08/10/2011 | 4830 letture | 0 commenti
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