Economia
Tobin Tax, l'Europa fa da apripista
La tanto evocata e attesa Tassa sulle Transazioni Finanziarie (TTF), o Tobin Tax (dal nome dell'economista che, nel 1972, l'ha proposta), o Robin Hood Tax, (secondo la logica di togliere ai ricchi per dare ai poveri), finalmente trova un riscontro concreto a livello politico, anche se i mass media ne hanno trascurato l'importanza della diffusione. E, senza retorica, è importante constatare che la prima istituzione sovranazionale che ha trovato il "coraggio" di prendere una decisione nella direzione di tassare la finanza speculativa è l'Europa, che ha mostrato la sua tradizionale vocazione di essere all'avanguardia su questioni cruciali e la sua capacità di svolgere un ruolo guida a livello mondiale. Non è una Direttiva (non essendoci ancora il consenso unanime di tutti e 27 i paesi membri dell'UE) ma un emendamento (d'altronde non vincolante), approvato definitivamente a larga maggioranza dal Parlamento europeo alla fine di maggio scorso, in seguito alla proposta della Commissione europea del 2011.
Tale decisione è legata agli sviluppi inquietanti della crisi finanziaria e della crisi del debito pubblico nell'area dell'euro, che hanno colpito drammaticamente l'economia reale (imprese e famiglie) e aperto numerose questioni: dalla crescita economica al futuro dei giovani, dal mercato del lavoro alle pensioni, dal rischio di una povertà diffusa ai sistemi di welfare, dalla competitività internazionale alla difesa della credibilità all'estero…
Com'è noto, la crisi economica, giunta ormai al quinto anno, ha introdotto un altro indice che tutti seguono con ansia: lo spread. Si è capito che quando si avvicina a quota 500 l'economia si trova in una soglia ad alto rischio. La differenza dei tassi di interesse tra i titoli pubblici italiani (più alti) e quelli tedeschi (più bassi) significa che il governo italiano deve pagare ai creditori possessori dei titoli un rendimento più alto, che grava negativamente sul bilancio pubblico, costringendo, al fine di portarlo in equilibrio, a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare le imposte. È quanto ha fatto il governo Monti (e altri paesi europei in difficoltà di bilancio) con la politica di austerità, dietro l'indicazione dell'UE, del FMI e della BCE, una manovra necessaria ma insufficiente per portare l'ingente debito pubblico, accumulatosi nei decenni scorsi, a livelli tali da ripristinare il rapporto debito pubblico/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht (60%, contro l'attuale 120%). Infatti, nonostante la "politica del rigore" messa in atto dal governo, lo spread si mantiene a livelli alti, facendo percepire chiaramente che nello spread si nascondono i poteri opachi della finanza, lasciando alto il rischio di altre crisi del debito.
Il debito pubblico diventa indifendibile quando le entrate fiscali sono insufficienti e il Pil non cresce, e si è costretti a ricorrere all'accensione di altri debiti per pagare gli interessi e rimborsare il debito. È quanto è accaduto a molti paesi, a cominciare dalla Grecia e dall'Irlanda, ma anche a Spagna, Portogallo e Italia, rischiando, in caso di insolvenza, il fallimento dello Stato. Si è venuto a creare così un circolo vizioso: le entrate fiscali non aumentano oltre la "politica del rigore" perché il Pil non cresce, il Pil non cresce perché non aumenta la domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica, esportazioni), la domanda aggregata non aumenta per il clima di sfiducia che si è andato creando, per l'alto costo del lavoro, per l'alta pressione fiscale e per il rallentamento della crescita di altri paesi, compresa la Cina e gli Stati Uniti.
Il problema dell'eccessivo debito pubblico non è solo italiano ma di tutti i paesi europei, anche se di dimensioni diverse, frutto di una spesa pubblica allegra dei decenni scorsi. Naturalmente i paesi più deboli economicamente oggi si trovano a subire attacchi speculativi anche da parte di altri Stati, che, avendo tassi di interesse più bassi, ne traggono un vantaggio. Ciò è particolarmente grave quando si tratta di uno Stato dell'Unione europea, perché chiama in causa la solidarietà che dovrebbe sussistere tra i partner europei per dare un senso all'Unione, che faticosamente si è costruita, e alle istituzioni sovranazionali, in particolare alla BCE, la quale ha la funzione di mettere in atto manovre di politica monetaria per indirizzare il tasso di cambio, il credito e la finanza al fine di raggiungere gli obiettivi di politica economica: stabilità dei prezzi, occupazione, crescita. A tale proposito i 17 Paesi dell'Eurozona hanno costituito due organismi, l'Efsf (European Financial Stability Facility) e l'Esm (European Stability Mechanism), che formano il Fondo salva-Stato come scudo anti-spread, e che hanno il compito di acquistare i titoli dei paesi in difficoltà, con lo scopo di farne aumentare il prezzo e abbassare il tasso di interesse. Il Fondo salva-Stato, che doveva servire per avviare gli aiuti da parte della BCE e abbassare i tassi di interesse, e quindi lo spread, era stato pertanto pensato come strumento per risanare i conti pubblici e per attutire gli effetti della crisi. Tuttavia, a metà agosto, il 'no' della Germania, che considera illegittimo tale strumento, ne ha bloccato l'applicazione, facendo slittare in autunno una ulteriore ripresa del dibattito e lasciando il rischio di ulteriori attacchi speculativi.
Il Fondo salva-Stato riguarda solo i paesi europei, ma non dobbiamo dimenticare che i mercati finanziari sono pienamente globalizzati, per cui se il Fondo salva-Stato, qualora trovasse il consenso di tutti i partner, salverà i paesi europei in difficoltà, certamente non proteggerà l'UE nel suo insieme.
Le analisi e le politiche di questi ultimi anni si sono concentrate prevalentemente su queste questioni, cercando disperatamente di affrontare le emergenze con la riforma del mercato del lavoro, con la riforma delle pensioni, con l'aumento delle imposte, con la spending review, con l'introduzione della tassa sulla prima casa; tutte manovre che gli economisti sanno bene che, oltre che impopolari, sono di ostacolo alla crescita economica. Ciò che gli economisti conoscono altrettanto bene, ma che esternano timidamente, è la «necessità di una riforma del sistema finanziario internazionale», perché è chiaro che la causa principale dell'attuale crisi economica è da riscontrare prevalentemente nel settore finanziario.
La domanda che tutti si pongono è: come uscire dalla crisi, che ha trasformato l'economia mondiale in una matassa ingarbugliata, di cui non si riesce a trovare il bandolo? Non è solo il debito pubblico, o il mercato del lavoro, il problema da affrontate, ma anche, e soprattutto, le numerose sfide di un mondo ormai globalizzato e interdipendente, che, se da un lato, ha il vantaggio di aver creato più dinamismo economico e più competitività, dall'altro, ha creato «un'economia che viaggia a due velocità»: quella reale, più lenta, e quella finanziaria, più veloce e alimentata dalla «sproporzionata finanza speculativa». Per cui uscire dalla crisi significa portare sullo stesso livello di crescita i due aspetti dell'economia, quello reale e quello finanziario. E siccome è evidente che l'economia finanziaria corre sull'onda della speculazione, lo zoccolo duro da abbattere è la speculazione. Ce ne rendiamo poco conto, ma è questa la guerra mondiale del XXI secolo, per combattere la quale non abbiamo ancora l'armatura adatta, anche perché siamo di fronte ad un nemico forte e ben equipaggiato, e pertanto duro da sconfiggere. Si tratta di combattere i poteri forti dei mercati finanziari non istituzionali con un potere politico debole. Con le misure di emergenza stiamo combattendo le battaglie, che si possono vincere o meno, ma la vittoria finale sarà quando prevarranno "le regole a livello internazionale" che mettono le redini alla finanza speculativa.
Non è una novità, e gli economisti e i governi sono consapevoli che la speculazione è il cancro dell'economia. Già negli anni Trenta del secolo scorso Keynes, formulando la sua teoria macroeconomica della domanda effettiva, che fu applicata per uscire dalla Grande crisi del 1929, sottolineava gli effetti negativi della speculazione; l'economista James Tobin propose una tassa sui movimenti di capitali speculativi già nel 1972, quando ancora la finanza non era speculativa a questi livelli. A livello politico solo alcuni paesi - come la Gran Bretagna, Hong Kong, Johannesburg, Taipei, Seul, Brasile - hanno applicato una tassa sulle transazioni finanziarie simile alla Tobin Tax, e altri paesi - come l'Italia con il governo Prodi, la Francia di Sarkozy e la Spagna di Zapatero l'hanno proposta; ma, essendo la speculazione globalizzata, la regolamentazione a livello di singoli paesi non elimina i rischi che si annidano in altri paesi e ne contagiano altri. Inoltre il rischio potrebbe essere quello della fuga dei capitali nei cosiddetti paradisi fiscali. Per cui, le proposte e l'applicazione della Tobin Tax devono provenire da istituzioni sovranazionali e coinvolgere tutti i Paesi del mondo. Nonostante ci siano state delle spinte e delle proposte più decise, a partire dal 2009, da parte di governi e della società civile per una regolamentazione a livello mondiale, tuttavia i dibattiti non hanno approdato a provvedimenti concreti per mancanza di unità di intenti, e quindi per debolezza politica.
È vero che bisogna toccare il fondo prima di risalire. La profondità e il prolungarsi dell'attuale crisi hanno messo in ginocchio l'economia dei paesi europei e ciò fa paura anche al presidente Obama, che paventa che gli effetti ritornino come un boomerang là dove la crisi è partita. Non bisogna sottovalutare inoltre la possibilità di un ulteriore conflitto militare in Medio Oriente, in cui saranno coinvolti anche gli USA, che avrà ripercussioni economiche, causate da probabili impennate del prezzo del petrolio. Se poi si considera che l'economia di altri paesi sta rallentando, compresa quella della Cina, e l'economia americana ristagna, si può ben capire che gli interventi puramente economici non sono sufficienti, ma si rendono necessari interventi profondamente strutturali a livello internazionale sul piano politico.
Sebbene la ricerca della soluzione dei problemi emergenti abbia costituito l'impegno principale dei governi dei paesi europei e le varie riforme abbiano attirato l'attenzione, il plauso e le critiche da parte dei mass media, dei sindacati e dei cittadini, tuttavia l'idea di regolamentare il settore finanziario, sospesa e ostacolata da anni, ma mai sopita, ha trovato nella crisi un "sussulto", sia a livello nazionale ma soprattutto a livello europeo. È proprio dall'Europa che il sussulto ha dato vita ad una svolta epocale che può fare dell'Europa « l'apripista per una regolamentazione mondiale del sistema finanziario».
L'aver assistito, a partire dagli anni Ottanta, alla trasformazione delle attività finanziarie da finanziamenti alle attività reali ad attività speculative ha aperto, per la prima volta nel 2000, il dibattito in Europa sulla fiscalità a livello internazionale, nella consapevolezza che gli ostacoli per raggiungere un'intesa a livello mondiale sarebbero stati insormontabili. Solo nel 2011, in piena crisi economica, che ha cominciato a diventare anche crisi politica, la proposta della Commissione europea di introdurre la TTF con una Direttiva si è fatta più decisa in Europa. Non tutti i paesi europei sono tuttavia favorevoli all'introduzione della Tobin Tax, e ciò blocca l'emanazione di una Direttiva, ma ciò non ha fermato il proposito della Commissione e del Parlamento europei di portare avanti l'idea, trovando intanto una via alternativa alla Direttiva. L'alternativa è la procedura di cooperazione rafforzata, cioè l'adozione di una legislazione fiscale comune, per la quale è sufficiente l'adesione di almeno nove Paesi membri dell'Unione. Oggi sono dieci i Paesi che ufficialmente hanno espresso parere favorevole: Germania, Francia, Austria, Spagna, Belgio, Portogallo, Slovenia, Grecia, Finlandia, Italia. La strategia del premier italiano Monti di aderire solo alla fine di giugno di quest'anno è stata quella di ottenere prima dal Consiglio europeo misure di riduzione dello spread. È significativa la valutazione positiva espressa da alcuni Paesi, come la Romania, la Polonia, la Repubblica Ceca, che fanno presupporre un aumento del numero dei paesi che aderiranno alla procedura di cooperazione rafforzata. Molto improbabile sarà l'adesione della Gran Bretagna, ma anche della Svezia, che si oppongono fermamente. La tassa, che entrerà in vigore alla fine del 2014, è di 0,1% per quanto riguarda le azioni e le obbligazioni e dello 0,01% per i prodotti finanziari. A livello europeo si prevedono entrate fiscali intorno ai 50 miliardi di euro l'anno.
Se l'Europa fa da apripista a livello mondiale, la Francia fa da apripista in Europa. La Francia è il primo paese europeo aderente alla procedura di cooperazione rafforzata che dal primo agosto di quest'anno applicherà una TTF dello 0,2% (il doppio di quanto aveva proposto il presidente Sarkozy) sull'acquisto di azioni di 109 aziende che sono state individuate tra quelle quotate in Borsa. Le entrate fiscali previste si aggirano intorno a 400 milioni di euro per questo scorcio del 2012 e in oltre il miliardo di euro l'anno a partire dal 2013.
Non essendo l'emendamento sulla Tobin Tax vincolante, si spera che tutti i paesi europei, o almeno quelli dell'Eurozona, adottino la TTF, seguendo l'esempio della Francia e l'invito del presidente della BCE Mario Draghi. L'adozione di questa tassa non è certo la panacea dei problemi economici, anzi, aprirà nuovi problemi politici relativi all'utilizzo delle nuove entrate fiscali. Ma certamente ha il merito di indirizzare le problematiche economiche verso il raggiungimento di alcuni obiettivi, come la riduzione della speculazione, l'aumento delle entrate fiscali da utilizzare per creare sviluppo e occupazione, l'attuazione di una maggiore giustizia sociale, visto che una parte dovrà essere destinata ai Paesi più poveri del mondo. Il percorso della TTF non sarà facile in quanto, oltre a dover essere ancora completata e corretta, nel senso di includere quanto più transazioni speculative possibili, deve trovare il consenso politico a livello internazionale.
L'obiettivo di introdurre la Tobin Tax in tutti i paesi del mondo contemporaneamente - unico modo per contenere il movente speculativo nei mercati finanziari - è certamente ben lontano da raggiungere, ma l'aver dato inizio a questo processo costituisce il primo importante passo verso la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Dicevamo che questa sarà la guerra mondiale del XXI secolo, che inizierà già nei prossimi mesi, in quanto la decisione europea farà certamente scendere in campo in maniera agguerrita gli oppositori della Tobin Tax, in primis le banche di investimento e di affari, che vedono nella regolamentazione finanziaria un'inversione di tendenza della deregulation degli ultimi trent'anni, della quale si è alimentata la finanza speculativa, e con essa l'accumulo della ricchezza in poche mani e l'affermarsi di poteri economico-finanziari forti. Probabilmente la reazione del sistema finanziario potrà alimentare scenari più o meno preoccupanti per le economie di tutto il mondo, o comunque prolungare questa crisi fino allo stremo. Non si vuole dare una interpretazione pessimista della realtà, ma l'esistenza oggettiva di queste condizioni ci fa pensare che solo allora cambierà l'atteggiamento ostile di quei Paesi che oggi sono contrari a stabilire regole a livello internazionale, soprattutto Stati Uniti e Cina. Solo allora si arriverà all'istituzione di un organismo internazionale che abbia il potere di fare rispettare le regole a livello mondiale. Solo allora l'economia, come la "fenice" che si è autodistrutta, risorgerà dalle sue ceneri rinnovata e purificata. La guerra sarà feroce ma siamo certi che alla fine porterà al crollo della finanza speculativa, un "crollo creativo" che vedrà il ritorno del settore finanziario al suo originario ruolo di finanziatore dell'economia reale e vedrà affermarsi un nuovo ordine economico e sociale internazionale, dove la cooperazione, il coordinamento delle politiche economiche, la solidarietà, saranno alla base dell'auspicato sviluppo equo e sostenibile. Un'accelerazione al raggiungimento di questo ambizioso traguardo - che coincide con gli "Obiettivi di Sviluppo del Millennio" concordati in sede ONU nel 2000 - potrà avvenire se ci sarà un fronte comune tra un coinvolgimento massiccio del G20, una maggiore partecipazione della società civile nei movimenti internazionali che già esistono (campagna 005, Greenreport, Mani Tese), l'adesione dei paesi cosiddetti paradisi fiscali e, non da ultimo, la nascita e la voce dei carismi.
Quello dei carismi è un tema particolarmente caro al prof. Luigino Bruni dell'Università Bicocca di Milano. Egli scrive: «Oggi l'Europa, e con essa il mondo, rischia di distruggere, per una dittatura della finanza, un patrimonio di virtù civile, di etica del lavoro e dei mestieri, sul quale il mercato si è poggiato ed è cresciuto nella modernità… Nella storia europea, di fronte alle crisi economiche e politiche, sono sorti i carismi… oggi il mondo dei carismi deve tornare a fare cultura, far sentire la propria voce nel campo culturale, raccontando una diversa narrativa su come e perché si fa impresa, politica, consumi, risparmi… I cambiamenti epocali sono stati provocati, nella storia, non dai grandi numeri, ma da minoranze profetiche. Oggi anche l'Europa economica e civile ha bisogno estremo del ruolo dei carismi come minoranze profetiche, capaci di dare sapore e di lievitare la nostra storia».
Giovanna Acciarito è nata e vissuta a Vizzini, dove ha frequentato le scuole elementari e medie di 1° e di 2° grado, conseguendo il Diploma di Ragioniere e Perito Commerciale presso l'ITC. Subito dopo la laurea in Economia e Commercio, conseguita presso l'Università degli Studi di Catania, ha vinto una Borsa di studio di ricerca e di specializzazione in Gestione delle Risorse Idriche presso l'Istituto di Idraulica, Idrologia e Gestione delle acque della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Catania. Successivamente, ha vinto il concorso a Ricercatore nella Facoltà di Economia dell'Università di Catania, dove insegna Istituzioni di economia nel Corso di laurea in Economia aziendale. Per un curriculum vitae più completo si veda www.unict.it/Personale docente.
Recapiti: e-mail acciarit@unict.it, telefono 3386213167.
Tale decisione è legata agli sviluppi inquietanti della crisi finanziaria e della crisi del debito pubblico nell'area dell'euro, che hanno colpito drammaticamente l'economia reale (imprese e famiglie) e aperto numerose questioni: dalla crescita economica al futuro dei giovani, dal mercato del lavoro alle pensioni, dal rischio di una povertà diffusa ai sistemi di welfare, dalla competitività internazionale alla difesa della credibilità all'estero…
Com'è noto, la crisi economica, giunta ormai al quinto anno, ha introdotto un altro indice che tutti seguono con ansia: lo spread. Si è capito che quando si avvicina a quota 500 l'economia si trova in una soglia ad alto rischio. La differenza dei tassi di interesse tra i titoli pubblici italiani (più alti) e quelli tedeschi (più bassi) significa che il governo italiano deve pagare ai creditori possessori dei titoli un rendimento più alto, che grava negativamente sul bilancio pubblico, costringendo, al fine di portarlo in equilibrio, a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare le imposte. È quanto ha fatto il governo Monti (e altri paesi europei in difficoltà di bilancio) con la politica di austerità, dietro l'indicazione dell'UE, del FMI e della BCE, una manovra necessaria ma insufficiente per portare l'ingente debito pubblico, accumulatosi nei decenni scorsi, a livelli tali da ripristinare il rapporto debito pubblico/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht (60%, contro l'attuale 120%). Infatti, nonostante la "politica del rigore" messa in atto dal governo, lo spread si mantiene a livelli alti, facendo percepire chiaramente che nello spread si nascondono i poteri opachi della finanza, lasciando alto il rischio di altre crisi del debito.
Il debito pubblico diventa indifendibile quando le entrate fiscali sono insufficienti e il Pil non cresce, e si è costretti a ricorrere all'accensione di altri debiti per pagare gli interessi e rimborsare il debito. È quanto è accaduto a molti paesi, a cominciare dalla Grecia e dall'Irlanda, ma anche a Spagna, Portogallo e Italia, rischiando, in caso di insolvenza, il fallimento dello Stato. Si è venuto a creare così un circolo vizioso: le entrate fiscali non aumentano oltre la "politica del rigore" perché il Pil non cresce, il Pil non cresce perché non aumenta la domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica, esportazioni), la domanda aggregata non aumenta per il clima di sfiducia che si è andato creando, per l'alto costo del lavoro, per l'alta pressione fiscale e per il rallentamento della crescita di altri paesi, compresa la Cina e gli Stati Uniti.
Il problema dell'eccessivo debito pubblico non è solo italiano ma di tutti i paesi europei, anche se di dimensioni diverse, frutto di una spesa pubblica allegra dei decenni scorsi. Naturalmente i paesi più deboli economicamente oggi si trovano a subire attacchi speculativi anche da parte di altri Stati, che, avendo tassi di interesse più bassi, ne traggono un vantaggio. Ciò è particolarmente grave quando si tratta di uno Stato dell'Unione europea, perché chiama in causa la solidarietà che dovrebbe sussistere tra i partner europei per dare un senso all'Unione, che faticosamente si è costruita, e alle istituzioni sovranazionali, in particolare alla BCE, la quale ha la funzione di mettere in atto manovre di politica monetaria per indirizzare il tasso di cambio, il credito e la finanza al fine di raggiungere gli obiettivi di politica economica: stabilità dei prezzi, occupazione, crescita. A tale proposito i 17 Paesi dell'Eurozona hanno costituito due organismi, l'Efsf (European Financial Stability Facility) e l'Esm (European Stability Mechanism), che formano il Fondo salva-Stato come scudo anti-spread, e che hanno il compito di acquistare i titoli dei paesi in difficoltà, con lo scopo di farne aumentare il prezzo e abbassare il tasso di interesse. Il Fondo salva-Stato, che doveva servire per avviare gli aiuti da parte della BCE e abbassare i tassi di interesse, e quindi lo spread, era stato pertanto pensato come strumento per risanare i conti pubblici e per attutire gli effetti della crisi. Tuttavia, a metà agosto, il 'no' della Germania, che considera illegittimo tale strumento, ne ha bloccato l'applicazione, facendo slittare in autunno una ulteriore ripresa del dibattito e lasciando il rischio di ulteriori attacchi speculativi.
Il Fondo salva-Stato riguarda solo i paesi europei, ma non dobbiamo dimenticare che i mercati finanziari sono pienamente globalizzati, per cui se il Fondo salva-Stato, qualora trovasse il consenso di tutti i partner, salverà i paesi europei in difficoltà, certamente non proteggerà l'UE nel suo insieme.
Le analisi e le politiche di questi ultimi anni si sono concentrate prevalentemente su queste questioni, cercando disperatamente di affrontare le emergenze con la riforma del mercato del lavoro, con la riforma delle pensioni, con l'aumento delle imposte, con la spending review, con l'introduzione della tassa sulla prima casa; tutte manovre che gli economisti sanno bene che, oltre che impopolari, sono di ostacolo alla crescita economica. Ciò che gli economisti conoscono altrettanto bene, ma che esternano timidamente, è la «necessità di una riforma del sistema finanziario internazionale», perché è chiaro che la causa principale dell'attuale crisi economica è da riscontrare prevalentemente nel settore finanziario.
La domanda che tutti si pongono è: come uscire dalla crisi, che ha trasformato l'economia mondiale in una matassa ingarbugliata, di cui non si riesce a trovare il bandolo? Non è solo il debito pubblico, o il mercato del lavoro, il problema da affrontate, ma anche, e soprattutto, le numerose sfide di un mondo ormai globalizzato e interdipendente, che, se da un lato, ha il vantaggio di aver creato più dinamismo economico e più competitività, dall'altro, ha creato «un'economia che viaggia a due velocità»: quella reale, più lenta, e quella finanziaria, più veloce e alimentata dalla «sproporzionata finanza speculativa». Per cui uscire dalla crisi significa portare sullo stesso livello di crescita i due aspetti dell'economia, quello reale e quello finanziario. E siccome è evidente che l'economia finanziaria corre sull'onda della speculazione, lo zoccolo duro da abbattere è la speculazione. Ce ne rendiamo poco conto, ma è questa la guerra mondiale del XXI secolo, per combattere la quale non abbiamo ancora l'armatura adatta, anche perché siamo di fronte ad un nemico forte e ben equipaggiato, e pertanto duro da sconfiggere. Si tratta di combattere i poteri forti dei mercati finanziari non istituzionali con un potere politico debole. Con le misure di emergenza stiamo combattendo le battaglie, che si possono vincere o meno, ma la vittoria finale sarà quando prevarranno "le regole a livello internazionale" che mettono le redini alla finanza speculativa.
Non è una novità, e gli economisti e i governi sono consapevoli che la speculazione è il cancro dell'economia. Già negli anni Trenta del secolo scorso Keynes, formulando la sua teoria macroeconomica della domanda effettiva, che fu applicata per uscire dalla Grande crisi del 1929, sottolineava gli effetti negativi della speculazione; l'economista James Tobin propose una tassa sui movimenti di capitali speculativi già nel 1972, quando ancora la finanza non era speculativa a questi livelli. A livello politico solo alcuni paesi - come la Gran Bretagna, Hong Kong, Johannesburg, Taipei, Seul, Brasile - hanno applicato una tassa sulle transazioni finanziarie simile alla Tobin Tax, e altri paesi - come l'Italia con il governo Prodi, la Francia di Sarkozy e la Spagna di Zapatero l'hanno proposta; ma, essendo la speculazione globalizzata, la regolamentazione a livello di singoli paesi non elimina i rischi che si annidano in altri paesi e ne contagiano altri. Inoltre il rischio potrebbe essere quello della fuga dei capitali nei cosiddetti paradisi fiscali. Per cui, le proposte e l'applicazione della Tobin Tax devono provenire da istituzioni sovranazionali e coinvolgere tutti i Paesi del mondo. Nonostante ci siano state delle spinte e delle proposte più decise, a partire dal 2009, da parte di governi e della società civile per una regolamentazione a livello mondiale, tuttavia i dibattiti non hanno approdato a provvedimenti concreti per mancanza di unità di intenti, e quindi per debolezza politica.
È vero che bisogna toccare il fondo prima di risalire. La profondità e il prolungarsi dell'attuale crisi hanno messo in ginocchio l'economia dei paesi europei e ciò fa paura anche al presidente Obama, che paventa che gli effetti ritornino come un boomerang là dove la crisi è partita. Non bisogna sottovalutare inoltre la possibilità di un ulteriore conflitto militare in Medio Oriente, in cui saranno coinvolti anche gli USA, che avrà ripercussioni economiche, causate da probabili impennate del prezzo del petrolio. Se poi si considera che l'economia di altri paesi sta rallentando, compresa quella della Cina, e l'economia americana ristagna, si può ben capire che gli interventi puramente economici non sono sufficienti, ma si rendono necessari interventi profondamente strutturali a livello internazionale sul piano politico.
Sebbene la ricerca della soluzione dei problemi emergenti abbia costituito l'impegno principale dei governi dei paesi europei e le varie riforme abbiano attirato l'attenzione, il plauso e le critiche da parte dei mass media, dei sindacati e dei cittadini, tuttavia l'idea di regolamentare il settore finanziario, sospesa e ostacolata da anni, ma mai sopita, ha trovato nella crisi un "sussulto", sia a livello nazionale ma soprattutto a livello europeo. È proprio dall'Europa che il sussulto ha dato vita ad una svolta epocale che può fare dell'Europa « l'apripista per una regolamentazione mondiale del sistema finanziario».
L'aver assistito, a partire dagli anni Ottanta, alla trasformazione delle attività finanziarie da finanziamenti alle attività reali ad attività speculative ha aperto, per la prima volta nel 2000, il dibattito in Europa sulla fiscalità a livello internazionale, nella consapevolezza che gli ostacoli per raggiungere un'intesa a livello mondiale sarebbero stati insormontabili. Solo nel 2011, in piena crisi economica, che ha cominciato a diventare anche crisi politica, la proposta della Commissione europea di introdurre la TTF con una Direttiva si è fatta più decisa in Europa. Non tutti i paesi europei sono tuttavia favorevoli all'introduzione della Tobin Tax, e ciò blocca l'emanazione di una Direttiva, ma ciò non ha fermato il proposito della Commissione e del Parlamento europei di portare avanti l'idea, trovando intanto una via alternativa alla Direttiva. L'alternativa è la procedura di cooperazione rafforzata, cioè l'adozione di una legislazione fiscale comune, per la quale è sufficiente l'adesione di almeno nove Paesi membri dell'Unione. Oggi sono dieci i Paesi che ufficialmente hanno espresso parere favorevole: Germania, Francia, Austria, Spagna, Belgio, Portogallo, Slovenia, Grecia, Finlandia, Italia. La strategia del premier italiano Monti di aderire solo alla fine di giugno di quest'anno è stata quella di ottenere prima dal Consiglio europeo misure di riduzione dello spread. È significativa la valutazione positiva espressa da alcuni Paesi, come la Romania, la Polonia, la Repubblica Ceca, che fanno presupporre un aumento del numero dei paesi che aderiranno alla procedura di cooperazione rafforzata. Molto improbabile sarà l'adesione della Gran Bretagna, ma anche della Svezia, che si oppongono fermamente. La tassa, che entrerà in vigore alla fine del 2014, è di 0,1% per quanto riguarda le azioni e le obbligazioni e dello 0,01% per i prodotti finanziari. A livello europeo si prevedono entrate fiscali intorno ai 50 miliardi di euro l'anno.
Se l'Europa fa da apripista a livello mondiale, la Francia fa da apripista in Europa. La Francia è il primo paese europeo aderente alla procedura di cooperazione rafforzata che dal primo agosto di quest'anno applicherà una TTF dello 0,2% (il doppio di quanto aveva proposto il presidente Sarkozy) sull'acquisto di azioni di 109 aziende che sono state individuate tra quelle quotate in Borsa. Le entrate fiscali previste si aggirano intorno a 400 milioni di euro per questo scorcio del 2012 e in oltre il miliardo di euro l'anno a partire dal 2013.
Non essendo l'emendamento sulla Tobin Tax vincolante, si spera che tutti i paesi europei, o almeno quelli dell'Eurozona, adottino la TTF, seguendo l'esempio della Francia e l'invito del presidente della BCE Mario Draghi. L'adozione di questa tassa non è certo la panacea dei problemi economici, anzi, aprirà nuovi problemi politici relativi all'utilizzo delle nuove entrate fiscali. Ma certamente ha il merito di indirizzare le problematiche economiche verso il raggiungimento di alcuni obiettivi, come la riduzione della speculazione, l'aumento delle entrate fiscali da utilizzare per creare sviluppo e occupazione, l'attuazione di una maggiore giustizia sociale, visto che una parte dovrà essere destinata ai Paesi più poveri del mondo. Il percorso della TTF non sarà facile in quanto, oltre a dover essere ancora completata e corretta, nel senso di includere quanto più transazioni speculative possibili, deve trovare il consenso politico a livello internazionale.
L'obiettivo di introdurre la Tobin Tax in tutti i paesi del mondo contemporaneamente - unico modo per contenere il movente speculativo nei mercati finanziari - è certamente ben lontano da raggiungere, ma l'aver dato inizio a questo processo costituisce il primo importante passo verso la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Dicevamo che questa sarà la guerra mondiale del XXI secolo, che inizierà già nei prossimi mesi, in quanto la decisione europea farà certamente scendere in campo in maniera agguerrita gli oppositori della Tobin Tax, in primis le banche di investimento e di affari, che vedono nella regolamentazione finanziaria un'inversione di tendenza della deregulation degli ultimi trent'anni, della quale si è alimentata la finanza speculativa, e con essa l'accumulo della ricchezza in poche mani e l'affermarsi di poteri economico-finanziari forti. Probabilmente la reazione del sistema finanziario potrà alimentare scenari più o meno preoccupanti per le economie di tutto il mondo, o comunque prolungare questa crisi fino allo stremo. Non si vuole dare una interpretazione pessimista della realtà, ma l'esistenza oggettiva di queste condizioni ci fa pensare che solo allora cambierà l'atteggiamento ostile di quei Paesi che oggi sono contrari a stabilire regole a livello internazionale, soprattutto Stati Uniti e Cina. Solo allora si arriverà all'istituzione di un organismo internazionale che abbia il potere di fare rispettare le regole a livello mondiale. Solo allora l'economia, come la "fenice" che si è autodistrutta, risorgerà dalle sue ceneri rinnovata e purificata. La guerra sarà feroce ma siamo certi che alla fine porterà al crollo della finanza speculativa, un "crollo creativo" che vedrà il ritorno del settore finanziario al suo originario ruolo di finanziatore dell'economia reale e vedrà affermarsi un nuovo ordine economico e sociale internazionale, dove la cooperazione, il coordinamento delle politiche economiche, la solidarietà, saranno alla base dell'auspicato sviluppo equo e sostenibile. Un'accelerazione al raggiungimento di questo ambizioso traguardo - che coincide con gli "Obiettivi di Sviluppo del Millennio" concordati in sede ONU nel 2000 - potrà avvenire se ci sarà un fronte comune tra un coinvolgimento massiccio del G20, una maggiore partecipazione della società civile nei movimenti internazionali che già esistono (campagna 005, Greenreport, Mani Tese), l'adesione dei paesi cosiddetti paradisi fiscali e, non da ultimo, la nascita e la voce dei carismi.
Quello dei carismi è un tema particolarmente caro al prof. Luigino Bruni dell'Università Bicocca di Milano. Egli scrive: «Oggi l'Europa, e con essa il mondo, rischia di distruggere, per una dittatura della finanza, un patrimonio di virtù civile, di etica del lavoro e dei mestieri, sul quale il mercato si è poggiato ed è cresciuto nella modernità… Nella storia europea, di fronte alle crisi economiche e politiche, sono sorti i carismi… oggi il mondo dei carismi deve tornare a fare cultura, far sentire la propria voce nel campo culturale, raccontando una diversa narrativa su come e perché si fa impresa, politica, consumi, risparmi… I cambiamenti epocali sono stati provocati, nella storia, non dai grandi numeri, ma da minoranze profetiche. Oggi anche l'Europa economica e civile ha bisogno estremo del ruolo dei carismi come minoranze profetiche, capaci di dare sapore e di lievitare la nostra storia».
Giovanna Acciarito è nata e vissuta a Vizzini, dove ha frequentato le scuole elementari e medie di 1° e di 2° grado, conseguendo il Diploma di Ragioniere e Perito Commerciale presso l'ITC. Subito dopo la laurea in Economia e Commercio, conseguita presso l'Università degli Studi di Catania, ha vinto una Borsa di studio di ricerca e di specializzazione in Gestione delle Risorse Idriche presso l'Istituto di Idraulica, Idrologia e Gestione delle acque della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Catania. Successivamente, ha vinto il concorso a Ricercatore nella Facoltà di Economia dell'Università di Catania, dove insegna Istituzioni di economia nel Corso di laurea in Economia aziendale. Per un curriculum vitae più completo si veda www.unict.it/Personale docente.
Recapiti: e-mail acciarit@unict.it, telefono 3386213167.
03/09/2012 | 3314 letture | 0 commenti
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