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Economia
Crisi economica e crisi di valori
La crisi economico-finanziaria che l'economia mondiale sta attraversando, caratterizzata da instabilità, incertezze ed inefficienze, ci pone l'interrogativo di quali siano le cause che provocano le fasi di recessione dell'attività economica.
L'attività economica rappresenta l'economia reale, cioè la produzione di beni e servizi, che mette in moto il meccanismo economico nel quale si attivano investimenti, occupazione, profitti, consumi, risparmi, scambi. Essa viene espressa sinteticamente dal PIL (Prodotto Interno Lordo), l'indice che, dal punto di vista monetario, esprimendo lo stato di salute dell'economia, viene seguito con molta attenzione dai governi.
In tutti i Paesi l'attività economica è caratterizzata da irregolarità, nel senso che vi sono periodi (brevi, medi e lunghi) in cui l'attività economica cresce e altri in cui decresce, dando luogo a delle oscillazioni, i cosiddetti " cicli economici". Ogni ciclo economico è pertanto formato da una fase espansiva e da una fase recessiva. Nella fase espansiva, nella quale si crea un clima di fiducia e di stabilità, tutte le grandezze macroeconomiche, come gli investimenti, la produzione, l'occupazione, i profitti, i salari, i consumi, il risparmio aumentano, ma aumentano anche i prezzi. Nella fase recessiva, viceversa, tutte le grandezze macroeconomiche diminuiscono e si innescano forti preoccupazioni e ondate di pessimismo che alimentano un circolo vizioso.
La misurazione sistematica dell'attività economica è relativamente recente. Sebbene alcuni tentativi risalgano al Seicento, ad opera degli inglesi William Petty e Gregory King, fino alla Grande crisi del 1929 le stime dell'attività economica erano piuttosto grossolane e imperfette. Infatti, nonostante la crisi del 1929 sia stata una crisi di grandi dimensioni, tuttavia i politici americani non ne conoscevano l'entità a causa dell'insufficienza e dell'inattendibilità dei dati macroeconomici, essendo ancora in auge la microeconomia. Fu allora che alcuni ricercatori americani, sotto la guida dell'economista ucraino Simon Kuznets, elaborarono un indice per esprimere l'attività economica, il "Gross National Product" (Prodotto Interno Lordo), consapevoli della sua ancora grossolanità. Solo con la nascita della macroeconomia negli anni Trenta del XX secolo, ad opera dell'economista inglese John Maynard Keynes, iniziò lo studio e la raccolta di dati aggregati, che interessò molti Stati, i quali, solo dopo il secondo conflitto bellico, cominciarono a tenere un sistema di contabilità nazionale.
Nonostante il progresso tecnico e l'aumento della forza lavoro abbiano assicurato all'attività economica un trend positivo nel lungo periodo, tuttavia l'economia non è stata immune da crisi, e ognuna si è presentata con caratteristiche particolari e ha comportato grandi cambiamenti strutturali nell'economia. Nel corso degli ultimi due secoli si sono verificate diverse crisi economiche, dapprima considerate un'interruzione casuale della crescita dovuta prevalentemente a fenomeni monetari e, successivamente, al perdurare dell'instabilità del sistema, che alla fine crolla.
Già nel 1772 il governatore della Pensylvania metteva in evidenza il ristagno del commercio e gli effetti negativi sull'economia della regione. E pochi anni dopo Adam Smith, il padre dell'economia, e altri osservatori dell'inizio del XIX secolo, sottolineavano le dannose conseguenze dell'eccesso dell'attività commerciale e della speculazione. Tra le diverse crisi, qui ne vogliamo ricordare alcune: negli Stati Uniti, la crisi finanziaria del 1837, causata da una febbre speculativa che innescò un terribile panico e la conseguente depressione dell'economia reale; la grande depressione del 1873-1895, che si manifestò con una deflazione causata da una eccedenza di produzione rispetto alla domanda; la crisi del 1907, conosciuta come il «Panico dei banchieri», causata da un progetto speculativo, poi fallito. Ricordiamo inoltre la Grande crisi del 1929, la crisi petrolifera del 1972, la crisi asiatica del 1997, la crisi argentina del 2001-2002 e l'attuale crisi innescatasi nell'agosto del 2007 e ancora in atto.
L'andamento dell'economia non può essere previsto con accuratezza, a causa dei molteplici fattori che influenzano l'irregolarità dell'attività economica, ma l'interesse per l'analisi delle cause che provocano le fasi di crescita o di recessione economica ha stimolato molti studi e molte interpretazioni e ha dato lo spunto agli economisti per elaborare le teorie dello sviluppo.
Riguardo le crisi economiche, mentre tutti gli economisti sono d'accordo sugli effetti negativi, in termini di riduzione della produzione e dei consumi e di aumento della disoccupazione, non tutti lo sono sulle cause. Nel XVIII secolo, tra gli economisti classici spiccava l'opinione pessimistica di Thomas Malthus, secondo cui la crescita della popolazione era la causa della stagnazione della crescita della ricchezza pro-capite. All'opinione di Malthus si contrapponeva «la legge degli sbocchi» di Say, che, basandosi sulla metafora della «mano invisibile» di Adam Smith che assicurava il perfetto funzionamento del mercato, sosteneva l'inesistenza delle crisi economiche. Più recentemente, alcune interpretazioni delle crisi pongono l'accento su cause endogene, legate alla struttura dell'economia, altre su cause esogene, altre sui fenomeni monetari (variazione della quantità di moneta o del tasso di interesse), altre sulla forza sindacale o sull'aspetto tecnologico e altre sul ciclo elettorale o ciclo economico politico. Tra le tante, quella che più di tutte ha formato oggetto di discussione e di studio è l'interpretazione di J. M. Keynes, che pone l'accento sullo squilibrio tra risparmi e investimenti, e quindi sulla carenza della domanda effettiva, ponendo l'accento sulle aspettative, oltre che sull'incertezza derivante da crolli dei mercati azionari, scandali, conflitti, ecc., che, innescando un'ondata di pessimismo, causa instabilità negli investimenti, e quindi instabilità nella produzione e nell'occupazione.
Certamente ogni interpretazione ha un fondamento di verità e le varie cause si intrecciano e contribuiscono a rendere irregolare e ciclica l'attività economica. Al di là delle cause individuate nelle varie crisi, ciò che bisogna sottolineare è che esse sono state superate con opportuni interventi di politica economica. Anche la Grande crisi del 1929, nonostante si sia propagata in molti Paesi e si sia prolungata per parecchi anni, trovando una definitiva soluzione soltanto dopo il secondo conflitto bellico, tuttavia il suo superamento è stato dovuto ad una politica economica espansiva basata sul deficit spending, messa in atto dal Presidente americano Franklin Roosevelt e avvalorata dall'analisi teorica di Keynes. Ma, nonostante gli interventi di politica economica siano riusciti storicamente a invertire il punto di minimo dei cicli economici e a far superare le fasi di recessione, esse si ripresentano continuamente.
Se osserviamo attentamente la struttura delle varie crisi che si sono succedute ci accorgiamo che la speculazione ricorre frequentemente, per cui non può non essere sottolineato che l'aspetto speculativo rappresenta un elemento perturbante significativo quando oltrepassa il suo importante ruolo di finanziamento dell'economia reale e diventa pura e selvaggia speculazione. Tale aspetto ci porta a riflettere sulla natura del capitalismo.
Il capitalismo, che si identifica nell'accumulazione, nella ricchezza, è nato nel XVI secolo, alla fine del feudalesimo, prima con la corrente di pensiero mercantilista, che considerava lo scambio come fonte della ricchezza e che restò in auge fino al XVII secolo, e dopo con il pensiero fisiocratico, secondo il quale la ricchezza era generata dalla produzione agricola. Solo nel XVIII secolo il susseguirsi di cambiamenti in diversi campi (la nascita delle prime industrie e della classe lavoratrice, lo sviluppo del sistema di mercato, l'aumento della popolazione) diede una svolta significativa al capitalismo, che cominciò a nutrirsi di produzione industriale, considerare il lavoro nell'industria la fonte della ricchezza e a vivere in un mercato libero, tanto che l'economia capitalistica si identifica con l'economia di mercato.
Un significativo cambiamento si è avuto man mano che al capitalismo produttivo si è andato affiancando il capitalismo finanziario. Sebbene la finanza sia nata nel Seicento con la creazione delle prime Borse valori e le prime Banche centrali, il capitalismo finanziario è nato, e si è sviluppato, a partire dai primi anni del Novecento. Per capitalismo finanziario si intende la produzione di profitti (facili) non attraverso il lavoro e il capitale inteso come fattore produttivo, ma attraverso il denaro, ed è quello che si presta molto facilmente alla speculazione, soprattutto perché, almeno fino ad oggi, è privo di regole, che lo rendono fragile, vulnerabile e capace di innescare facilmente crisi finanziarie che sfociano in crisi economiche.
La causa scatenante dell'attuale crisi, che ha avuto il suo epicentro negli USA, infatti, è stata l'irrefrenabile speculazione americana nel settore immobiliare attraverso i mutui sub-prime (mutui ad alto rischio), prima, e nel settore finanziario, dopo, alimentata dalla corsa al raggiungimento di alti livelli di profitti da parte delle banche, dai cambiamenti nelle abitudini dei cittadini di ricorrere più facilmente all'indebitamento, nonchè dall'eccessiva fiducia che è stata data alla capacità dei mercati di autoregolarsi. Se poi consideriamo che per la prima volta nella storia l'economia ha superato i confini nazionali, assumendo una dimensione globale, e che le banche si sono trasformate in istituzioni di investimento, che dispongono di nuovi e diversificati strumenti finanziari sempre più sofisticati e virtuali - che hanno poco in comune con l'economia reale ma che attirano comportamenti speculativi - ci rendiamo conto di quanto il capitalismo odierno abbia delle caratteristiche che lo discostano dalle forme precedenti e di quanto sia complesso e difficoltoso proteggere l'economia reale e tentare di arginare le crisi.
Ci sembra opportuno ricordare che il vecchio modello di accumulazione fordista basava la crescita economica sul lavoro e sull'imprenditorialità, e da questi fattori si originavano i profitti, il reddito e l'occupazione. Tale modello - in presenza di elementi favorevoli, come una continua crescita della domanda, l'assenza di vincoli ambientali e di vincoli relativi alle materie prime, livelli salariali più bassi della produttività, nonché l'adesione al Mercato comune europeo nel 1957 che favorì notevolmente le esportazioni - permise una crescita sostenuta a partire dal secondo dopoguerra fino al «miracolo economico» dei primi anni Sessanta. I primi segni di cambiamento che fecero entrare in crisi tale modello furono l'accresciuta forza sindacale e gli aumenti salariali del 1963 e del 1969 superiori alla produttività e l'aumento del prezzo del petrolio del 1973 e del 1979, che, aumentando i costi di produzione, portarono ad una caduta del tasso di profitto delle imprese, oltre ad un aumento del tasso di inflazione.
Intanto cominciavano ad essere messi in evidenza gli effetti esterni negativi della crescita economica - in termini di degrado ambientale, di inquinamento, di congestione urbana, di scarsità economica delle risorse naturali - che necessitavano di un aumento della spesa pubblica per attuare misure di correzione. Inoltre, a livello internazionale, accanto agli Stati Uniti – che avevano dominato l'economia mondiale durante il persistere degli accordi di Bretton Woods siglati nel 1944 – andavano emergendo le economie europea e giapponese e si andava affermando una sempre maggiore interdipendenza tra le economie dei vari paesi, i cui interessi di natura reale e finanziaria andavano intensificandosi, condizionando fortemente le politiche economiche di ciascun paese e il raggiungimento degli obiettivi economici interni. Per la prima volta il sistema economico e monetario internazionale andava assumendo, cioè, una fisionomia oligopolistica, con tutte le caratteristiche di questa forma di mercato: conflittualità tra gli attori principali e marginalità di quelli più deboli.
A partire dagli anni Ottanta la riduzione della produttività, la crisi del profitto, la fiducia nella capacità autoregolante del mercato e il ricorso alla deregulation hanno spostato la fonte dei profitti nella finanza e nella speculazione - facilitata dal progresso nelle tecnologie dell'informazione - trasformando il capitalismo da produttivo in finanziariamente selvaggio, mescolando la gerarchia dei valori a favore dell''avere' più che dell''essere'. Il mercato è certamente un meccanismo straordinariamente efficiente, ma se non è sostenuto da norme che lo regolano e da comportamenti etici e morali mostra la sua imperfezione e i suoi limiti, diventando instabile e producendo inevitabilmente effetti economici destabilizzanti. Negli ultimi trent'anni, ma soprattutto in questi ultimi anni, abbiamo assistito, infatti, ad una riduzione del tasso di crescita del PIL, ad un aumento della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ad una riduzione dei salari reali, ad un aumento delle diseguaglianze, ad un aumento del debito pubblico e ad un aumento del lavoro precario, che né il mercato né gli interventi pubblici sono riusciti ad affrontare efficacemente.
Oggi le dinamiche produttive e finanziarie non solo si sovrappongono ma l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sull'economia reale, rendendo difficile valutare la crescita effettiva dell'economia. Inoltre, la forza del libero mercato globale ha preso il sopravvento sulla forza dei governi che, di fronte al potere acquisito dal capitalismo produttivo e finanziario, trovano dei limiti al controllo degli investimenti, della finanza e del fisco, che invece colgono l'opportunità offerta dalla globalizzazione per delocalizzare i capitali alla ricerca di maggiori profitti.
Bisogna rendersi conto che la crisi attuale presenta pertanto delle peculiarità rispetto alle crisi precedenti, derivanti dalla concentrazione e dal maggiore potere del capitalismo industriale e finanziario, dall'evolversi del fenomeno della globalizzazione, dall'emergere di nuovi paesi sulla scena economica internazionale (la Cina e l'India), dal gonfiarsi del debito pubblico di molti paesi, in alcuni dei quali si rasenta il rischio di un default. Da ciò emerge la complessità del contesto in cui l'attuale crisi è inserita, che determina il prolungarsi della fase di stagnazione e, soprattutto, la difficoltà di mettere in atto misure di politica economica consolidate per trovare soluzioni di ripresa, che stanno portando verso una crisi senza precedenti, ampliata dalla velocità con cui procede il processo di globalizzazione e dai mutamenti politici e sociali che si stanno verificando in vari paesi del mondo.
Se poi teniamo conto che la crisi economica è accompagnata parallelamente da crisi in campo politico, sociale, istituzionale, culturale, ambientale, psicologico, oltre che morale e di fiducia nei sistemi organizzati - indipendentemente dal fatto che le singole crisi siano causa o effetto della crisi economica e che ognuna ha ritmi evolutivi diversi - non possiamo non considerare che questa crisi è, in un certo senso una crisi di sistema, come qualcuno l'ha definita, ma sicuramente una crisi complessa, per la presenza di elementi nuovi che la alimentano, la cui soluzione non può attingere solo da esperienze precedenti. Alla luce di questo contesto socio-economico, che sembra essere un cantiere aperto di sfide, si rende pertanto necessario innanzitutto acquisire la consapevolezza che ci troviamo in un punto di non ritorno, e in questa prospettiva la soluzione va ricercata nella ridefinizione degli obiettivi e nell'utilizzo di nuovi strumenti di intervento.
Da molti è stato fatto un parallelismo tra la crisi attuale e la Grande crisi del 1929. Tra le due crisi vi sono dei punti in comune, come il detonatore dei mercati borsistici e finanziari, la propagazione in molti paesi del mondo e gli effetti depressivi sull'economia reale. Ma ogni crisi è parte integrante della realtà storica in cui si verifica e va pertanto interpretata tenendo conto della situazione socio-economica di riferimento, sia nazionale che internazionale. In questo senso esistono delle differenze sostanziali tra l'attuale crisi e la crisi del '29. Innanzitutto nel contesto mondiale degli anni Trenta gli Stati Uniti erano l'unica potenza economica ormai affermata ed erano il principale creditore nei confronti del resto del mondo, soprattutto dell'Europa, la cui economia distrutta dalla guerra potè usufruire dei finanziamenti americani per la ripresa. Oggi, sono diversi i paesi economicamente dinamici nel contesto competitivo internazionale, come l'Europa, la Cina, l'India, e gli USA sono diventati un paese debitore nei confronti di altri paesi, come la Cina, il Giappone, il Brasile, il Venezuela. Inoltre, è diversa la struttura produttiva e sono diversi gli stili di vita e le abitudini degli individui. Pensiamo ai predominanti settori produttivi ad alta intensità di lavoro, oggi maturi, e il subentro di settori ad alta tecnologia; al contenimento dei bisogni in contrapposizione al consumismo odierno; al concetto di lavoro considerato una volta fonte di reddito e di realizzazione personale in contrapposizione al concetto di lavoro oggi considerato spesso un'attività alienante; l'accettazione di salari inferiori alla produttività rispetto alle odierne richieste di aumenti salariali superiori alla produttività; il senso del risparmio in contrapposizione all'odierno ricorso facile all'indebitamento per soddisfare bisogni, spesso indotti. Diverse sono anche le reazioni dei governi per affrontare la crisi, nel senso che, mentre la crisi del '29 stimolò il ricorso al protezionismo, la crisi attuale, non potendo ricorrere ad una guerra commerciale a causa della globalizzazione dei mercati, ha risvegliato il ricorso alla speculazione nel mercato valutario. È ciò che l'Italia sta vivendo da luglio di quest'anno, quando la speculazione finanziaria ha frequentemente preso come bersaglio i BTP del Tesoro. Semmai il parallelismo tra le due crisi può essere utile per ricordarci quali errori e comportamenti irrazionali sono da evitare perché si possa limitare il verificarsi di altre crisi, che, dato lo stato di incertezza e di sfiducia oggi dominante, inevitabilmente saremo costretti ad affrontare nei prossimi anni.
Ciò che è utile per la comprensione e l'interpretazione della crisi attuale è l'osservazione della realtà socio-economica nel quadro storico di lungo periodo. Il "tempo", che scorre lento ma inesorabile, ha una forza capace di notevoli trasformazioni. Nel corso della storia si sono avuti sconvolgimenti epocali che hanno cambiato la struttura economica e sociale e dato luogo ai cicli economici lunghi. Ricordiamo i cambiamenti in seguito allo sviluppo nei settori della meccanizzazione, dell'elettricità, dei trasporti. Oggi il rapido sviluppo del settore dell'informatica e il fenomeno della globalizzazione giocano un ruolo fondamentale nello sconvolgimento degli equilibri preesistenti, che rendono ancora incerta la delimitazione di un nuovo assetto economico, sociale e istituzionale, sia a livello temporale che strutturale.
Nella fase di transizione in cui oggi si trova l'economia e la società non bisogna pertanto sottovalutare che la causa di fondo è da riscontrare nei complessi cambiamenti epocali che si stanno verificando in campo socio-economico, tecnologico, istituzionale e culturale che, dal punto di vista economico, chiudono la fase caratterizzata soltanto dallo sviluppo dell'industria manifatturiera e ne aprono un'altra, denominata post-industriale, caratterizzata dalla produzione scientifica, culturale e dei servizi, che porta verso un'economia immateriale e dove predominano i settori tecnologici più avanzati dell'elettronica, dell'informatica, dell'ottica, delle biotecnologie e dei nuovi materiali, la cui domanda, almeno fino ad ora, non è sufficiente per creare un mercato di dimensioni paragonabili ai prodotti di massa tradizionali e, correlativamente, non è sufficiente per creare occupazione; dal punto di vista istituzionale - essendo le tradizionali azioni dei governi incapaci di stare al passo con l'evolversi dell'economia - lasciano aperta la divergenza tra la dinamica dell'economia e la politica economica, che neanche la nascita di organizzazioni internazionali o regionali è riuscita ad eliminare; dal punto di vista socio-culturale hanno affermato sempre più una cultura basata sul consumismo, sull'individualismo, sull'avere' più che sull''essere' e, senza alcuna retorica, su un'eclissi di valori, come testimoniano alcuni movimenti sociali, che, dagli anni Settanta, disapprovando l'enfasi che viene data alla crescita eccessiva del consumo, rivelano una generale crisi di valori e un malessere diffuso.
Ciò che ci preme sottolineare è che i numerosi dibattiti sulla crisi e la ricerca di soluzioni spesso trascurano un'importante visuale, cioè che i significativi cambiamenti vanno osservati non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista dei valori, e i due aspetti non sono affatto slegati, anzi a monte di qualsiasi tipologia di crisi vi è l'erosione dei valori e della responsabilità, che ci fa affermare che è la concomitanza di crisi economica e di crisi di valori che mette in evidenza la peculiare connotazione della crisi attuale, che si presenta multidimensionale e globale, e pertanto di difficile superamento nel breve periodo. È significativa a tale proposito la frase del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, pronunciata in occasione della visita del Papa Benedetto XVI al Quirinale nell'autunno del 2008: «Gli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta dello sviluppo mondiale derivano dai guasti di una corrosiva caduta dell'etica nell'economia e nella politica».
Alla base dello scoppio della crisi finanziaria vi è certamente la mancanza di etica e di responsabilità da parte delle banche che, alla ricerca di alti profitti, non hanno tenuto conto della differenza tra gli impegni assunti e l'acquisto di titoli, spesso allo scoperto e virtuali, trovandosi in difficoltà ad onorare gli impegni quando la Borsa è crollata, causando effetti devastanti, sia all'economia reale per la riduzione di prestiti alle imprese, sia alle casse dello Stato, che ha dovuto finanziare gli istituti di credito per far fronte ai debiti del sistema bancario. La responsabilità è anche dei governi che non hanno saputo regolare le transazioni finanziarie e ascoltare i consigli dell'economista James Tobin, premio Nobel per l'economia nel 1981, che già negli anni Settanta, conscio degli effetti negativi della speculazione, proponeva di introdurre una tassa sui movimenti di capitali speculativi. Oggi si ritorna a parlare di Tobin-tax, ma ancora gli ostacoli per la sua applicazione non sono stati superati. La responsabilità è inoltre di chi - imprese, economisti, agenzie di rating e gli stessi governi – ha sottovalutato gli effetti negativi della speculazione.
Il binomio etica-economia è stato abbandonato quando, nel XVIII secolo, l'economia è diventata una scienza autonoma - rispetto all'etica e alla politica a cui era subordinata precedentemente - e i comportamenti dell'homo oeconomicus sono stati ricondotti all'utilitarismo e al profitto, considerati il fine e non il mezzo per raggiungere il fine, così com'era la concezione originaria di Aristotele, che considerava il bene umano la vera ricchezza. E quando il mezzo per raggiungere il benessere diventa il fine, tutto il sistema economico, e sociale, diventa instabile. Gli economisti, dal canto loro, hanno trovato nei comportamenti individuali e negli interventi di politica economica l'oggetto del loro studio e, con diverse correnti di pensiero, hanno costruito un impianto teorico semplificato e astratto, basato sulla razionalità dei comportamenti, trascurando di prendere in considerazione altre variabili che pure determinano il comportamento umano. Ma, almeno fino agli anni Sessanta era più facile osservare e prevedere i comportamenti dei consumatori e degli imprenditori, e ciò manteneva la distanza tra teoria e realtà entro certi limiti accettabili. Oggi la realtà è notevolmente mutata per i cambiamenti culturali degli ultimi decenni. Sono cambiati gli stili di vita e gli obiettivi da raggiungere sono diventati gli alti livelli di reddito e di consumo (i due indici che ufficialmente misurano la ricchezza e la povertà), che fanno sì che teoria e realtà si muovano a due velocità, nel senso che la prima, più lenta, si trova spiazzata dalla maggiore velocità con cui procede la seconda, tanto da far parlare di crisi della scienza economica.
Nel corso degli anni, l'esaltazione della ricchezza, dei consumi e del PIL è divenuta sempre più profonda e l'aspetto etico si è sbiadito sempre più. Oggi la divergenza tra etica ed economia ha raggiunto una dimensione tale da fare prendere coscienza della necessità di ricongiungere questi due concetti e di riconoscere che le azioni umane sono mosse da finalità non solo economiche ma anche morali. Già a partire dagli anni Settanta c'è stato un forte interesse da parte di molti economisti perché l'etica recuperasse la sua dimensione in campo economico e perché insieme al problema dell'efficienza economica venisse preso in considerazione anche il problema dell'equità.
Un contributo importante in tale direzione è stato quello del più corteggiato economista, l'indiano Amartya Sen, le cui analisi sulla teoria dello sviluppo economico e l'approccio al concetto di benessere, intrisi di filosofia morale, gli sono valsi il Premio Nobel per l'economia nel 1998. Per Sen bisogna coniugare le ragioni dello sviluppo con quelle dell'equità, perché le conseguenze dei comportamenti umani non vanno valutate solo in termini di utilità individuale ma anche in relazione ai vincoli di onestà, solidarietà e cooperazione. La tesi sostenuta da Sen è che l'economia potrebbe essere più efficiente se si prestasse più attenzione all'aspetto etico che influenza il comportamento umano. Sen va oltre il concetto di equità e amplia la sua prospettiva al concetto di benessere e di sviluppo, mettendo in rilievo nelle sue analisi, oltre l'aspetto economicistico dello sviluppo, anche e soprattutto l'aspetto dello sviluppo umano, considerando l'individuo come persona, la quale deve essere messa in grado di avere la capacità – cioè il livello di benessere rappresentato dalla salute, dalla scolarizzazione - e la libertà di poter effettuare delle scelte per raggiungere il soddisfacimento dei bisogni, propri e degli altri. Nell'approccio di Sen la libertà assume un importante significato in quanto pone l'accento sulla "libertà positiva", cioè la libertà di essere arbitri di sé stessi, e quindi responsabili, in presenza di condizionamenti, sia personali che sociali e ambientali.
Affrontare la crisi economica significa pertanto affrontare contemporaneamente la crisi di valori e porre al centro delle analisi il problema dell'etica e della responsabilità in economia, nella prospettiva di una migliore qualità della vita, la sola espressione di un autentico sviluppo. Solo il riappropriarsi dell'etica e delle virtù civiche contribuirà notevolmente al superamento della crisi e ad uscirne con una marcia in più rispetto a come ci siamo entrati. La sfida è pertanto culturale, e quindi epocale e di lungo periodo, ed esige di proporre "una nuova cultura economica" - sia a livello micro (stili di vita individuali ed agire economico aziendale) che a livello macro (politica economica e sociale) - nell'ambito della quale vanno tenuti "sempre" presenti, non solo le elementari regole di "correttezza" (fiducia, lealtà, onestà) ma anche i concetti di etica, responsabilità, equità, solidarietà, relazionalità, reciprocità, il cui comune denominatore deve essere la centralità della persona e il benessere collettivo.
In realtà una nuova cultura economica sta, sebbene timidamente, manifestandosi, sia a livello legislativo (si pensi alle leggi sulla responsabilità amministrativa e penale delle imprese), sia a livello scientifico (come dimostrano i vari Convegni e Forum, nonché le varie ricerche accademiche su Etica ed Economia), sia a livello concreto (si pensi all'impegno dell'ONU e di altre organizzazioni internazionali nel promuovere lo sviluppo umano; ad alcune realtà imprenditoriali che vivono una nuova cultura economica, come le imprese sociali, le imprese del commercio equo e solidale, le imprese di Economia di Comunione; ad alcuni stili di vita, come il volontariato, il consumo critico e, a livello finanziario, le Banche etiche e il microcredito). È da notare che la nuova cultura economica a livello concreto, sia a livello imprenditoriale che di stili di vita, parte dal basso, cioè dalla società civile, dove la presenza giovanile è coinvolta in modo significativo.
Queste tendenze, che vanno fermamente incoraggiate e diffuse, rappresentano senz'altro un validissimo tassello nel sentiero da percorrere per la costruzione di un futuro capitalismo e per l'affermazione di "una nuova cultura economica", capace di far recuperare ai mercati un corretto funzionamento e una maggiore efficienza economica, oltre che creare un valore aggiunto anche in termini di capitale sociale.
Per rendere più facile questo sentiero bisogna innanzitutto concentrarsi su due concetti fondamentali, che devono costituire un punto di riferimento costante dell'agire umano, pubblico e privato, e avere un posto privilegiato nel rapporto tra etica ed economia: il benessere e l'educazione.
Il benessere è stato per tanto tempo sinonimo di ricchezza, e ciò ha giustificato comportamenti, pubblici e privati, all'insegna dell'aumento del reddito, determinando, da un lato, un cambiamento negli stili di vita dei consumatori, che, aumentando i loro consumi non solo per il soddisfacimento dei bisogni essenziali ma anche dei bisogni indotti ed effimeri, hanno sostituito il consumo con il consumismo, con dimensioni mai verificatesi nella storia; dall'altro, un'accelerazione alla rincorsa di alti livelli di profitti aziendali. Inoltre, dal punto di vista macroeconomico, l'obiettivo principale è stato il raggiungimento di un alto livello di PIL, e in questo senso il consumo è stato, ed è, una componente essenziale della domanda aggregata, ma tale è stato considerato, sia a livello di imprese che di politica economica, anche quando si è trasformato in consumismo, dimostrando una vera e propria miopia nei confronti degli effetti negativi che tale fenomeno avrebbe innescato, in termini di identificazione del consumo di beni materiali con la felicità, di acquisizione di uno status symbol attraverso il consumo dei cosiddetti "beni posizionali", ma soprattutto di irrefrenabile tendenza al consumismo, che hanno gradatamente originato ciò che possiamo definire uno stato di "malessere del benessere", che ha costituito, e costituisce, un costo sociale ed economico non indifferente.
Stati di malessere iniziarono quando a partire dagli anni Sessanta l'aumento dei consumi rendeva insufficiente il reddito disponibile, portando a richieste di aumenti salariali che, insieme alla crisi petrolifera del 1973, innescarono inflazione e fecero vacillare il consumismo stesso, creando stati di insoddisfazione e di malessere diffuso, che hanno costruito una struttura socio-economica instabile: crescita economica più lenta, disoccupazione, ricorso al credito al consumo, aumento del debito pubblico, sgretolamento delle relazioni umane e intergenerazionali, crisi delle famiglie, perdita di senso delle cose e del tempo, offuscamento degli ideali. In altri termini, si è andato man mano erodendo l'esistente e creando una società consumistica ricca di beni materiali ma povera di "vero" benessere, tanto da far emergere nuove povertà.
La percezione di questa realtà non ha lasciato insensibili i sociologi, prima, e gli economisti, dopo, che guardavano oltre il consumismo. Si cominciava, infatti, a prendere coscienza che questi cambiamenti erano la premessa di un disordine economico e sociale, sia nazionale che mondiale, per il quale bisognava prepararci. Oggi tale percezione, espressa o meno, è diffusa più di quanto si possa immaginare.
A livello teorico, a partire dagli anni Settanta iniziò una stagione di studi attorno al rapporto tra felicità ed economia. I primi studi empirici furono quelli dell'economista americano Richard Easterlin nel 1974, che misero in evidenza come l'effetto del reddito sulla felicità sia positivo per bassi livelli di reddito, mentre l'aumento del reddito oltre una certa soglia produce, paradossalmente, effetti negativi e diventa fonte di infelicità e malessere. Negli anni successivi, gli studi sulla felicità in economia si sono moltiplicati e ognuno ha dato un contributo per identificare un nuovo concetto di benessere, non più legato solo al reddito ma anche ad altre variabili, essenziali per poter parlare di "ben-essere", cioè star bene. Le variabili identificate sono la salute, l'abitazione, l'istruzione, il lavoro, l'aspettativa di vita, le relazioni sociali, la libertà, la democrazia, la qualità dell'ambiente, il tasso di criminalità, la fiducia nelle istituzioni, cioè tutti quegli elementi che consentono di migliorare la qualità della vita.
Sul nuovo concetto di benessere il contributo di Amartya Sen è stato notevole. Per Sen l'opulenza, le merci, o l'utilità non rappresentano di per sé elementi qualificanti il tenore di vita, ma i mezzi che le caratteristiche individuali e psicologiche – a sua volta legate al contesto sociale e culturale a cui appartengono – sono in grado di trasformare in tenore di vita. Sen pone al centro della sua analisi ciò che egli chiama well being individuale e sociale - che va oltre il tradizionale concetto di utilità e di welfare state – derivante non solo da fattori puramente economici ma da ciò che egli definisce capacità e funzionamenti, intesi in termini non tanto di risultati raggiunti quanto di possibilità di raggiungere i risultati, cioè l'abilità a realizzare condizioni di ben-essere, in base alla disponibilità sia di beni privati che di beni e servizi pubblici. Per Sen «il benessere...è una situazione... generale [e] in quanto si riferisce allo "star bene"... non ha necessariamente una connotazione materialistica; ad essa non sono estranei valori e sentimenti morali» (S. Zamagni Introduzione al volume di A. Sen «Scelta, benessere, equità», Il Mulino, 1986, pag. 39, nota 26). Il contributo di Sen non solo è stato notevole dal punto di vista teorico, anche per aver alimentato un filone di studi sull'importanza di considerare l'individuo come persona al centro delle analisi, ma è stato talmente incisivo e persuasivo anche a livello politico, tanto da spingere organizzazioni internazionali e governi a porre più enfasi al nuovo concetto di ben-essere e a riconoscere che, se il PIL cresce anche di fronte all'aumento di fasce di povertà, di consumi effimeri, di inquinamento, di guerre, ecc., esso non è adeguato per esprimere il benessere, fine ultimo della politica economica e sociale.
L'ONU è stata la prima organizzazione internazionale a considerare con serietà l'evidenza empirica riguardo il diffuso disagio e le contraddizioni esistenti nei paesi a reddito elevato. Dall'inizio degli anni Novanta del secolo scorso l'UNDP (United Nation Development Program) pubblica periodicamente dei Rapporti, noti come Human Development Report, le cui diverse tematiche affrontate ruotano tutte attorno allo sviluppo umano. Parallelamente, nella consapevolezza della poca significatività del PIL quale indicatore di benessere, sono stati elaborati diversi indici alternativi, il più importante dei quali è l'HDI (Human Development Index), che, oltre al PIL pro-capite, tiene conto di altri due importanti elementi - la longevità e il grado di istruzione - e che più realisticamente misura la qualità della vita dei 186 paesi membri a cui viene applicato.
Nonostante il PIL continui ad essere l'indicatore della ricchezza e ad essere utilizzato per confrontare la crescita dei diversi paesi (il FMI e l'OCSE lo usano per "bacchettare" i paesi meno virtuosi nella crescita), tuttavia il riconoscimento dei suoi limiti per indicare il benessere della collettività e l'esigenza di disporre di indicatori di benessere alternativi si va diffondendo nel mondo politico. L'Unione europea nel 2007 ha tenuto una Conferenza denominata Beyond GDP (Oltre il PIL), a cui hanno partecipato la Commissione europea, il Parlamento europeo, l'OCSE e il WWF. Significativa è anche l'iniziativa del Presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel 2008 ha formato la Commission on the measurement of economic performance and social progress, formata da 25 membri, tra cui l'italiano Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, l'economista francese Jean Paul Fitoussi e due premi Nobel per l'economia, l'indiano Amartya Sen e l'americano Joseph Stiglitz. Al Rapporto, noto come Rapporto Stiglitz (presidente della Commissione) e alle sue 12 raccomandazioni si deve il merito di portare nell'agenda politica internazionale la tematica del benessere e l'importanza che gli indici di benessere alternativi al PIL assumono nelle decisioni di politica economica e sociale. In Italia, da quest'anno anche l'Istat ha cominciato a prendere in considerazione l'elaborazione di indici di benessere.
In definitiva, affrontare la crisi significa che, insieme alle manovre di politica economica a breve per l'aggiustamento degli squilibri, emergenziali e non, si debba prendere pienamente coscienza del nuovo concetto di ben-essere e si cominci a ridefinire gli obiettivi economici e sociali che vadano oltre il PIL e che includano obiettivi di qualità della vita e di produzione di un capitale sociale. Soprattutto gli economisti, in qualità di consiglieri economici, più di tutti devono sentirsi responsabili, aprirsi ad altre discipline, ripensare la razionalità delle scelte economiche ed essere, come sosteneva Keynes, «i guardiani non della civiltà ma della possibilità di civiltà». Quanto detto sui cambiamenti epocali, sulla crisi di valori e sul nuovo concetto di benessere richiama l'attenzione sull'altro aspetto importante, cioè l'educazione e il suo rapporto con l'economia.
L'educazione non è stata certo tra i temi particolarmente attenzionati, né a livello sociale né tantomeno a livello politico - mostrando l'incapacità di cogliere i cambiamenti culturali, manifestatisi a partire dagli anni Sessanta, che avrebbero messo in crisi i metodi educativi tradizionali - sicuramente perché tra tutte le problematiche è la più complessa, sia come concetto che come azione di educare, e probabilmente perché si ha una visione distorta del concetto di educazione. È opinione comune che l'educazione consista nel trasmettere le stesse regole e gli stessi stili di vita da una generazione all'altra, ma se analizziamo l'etimologia del termine ci accorgiamo che ha un significato diverso e molto impegnativo. Educare deriva dal latino e-ducere, cioè "condurre fuori da", cioè condurre fuori le potenzialità che ognuno ha dentro di sé. In altri termini, educare significa condurre verso lo "sviluppo umano in tutte le sue dimensioni", da quella umana a quella culturale e spirituale (spirituale intesa non come religiosità ma come capacità di dare un "senso" alle proprie idee, ai propri comportamenti), al fine di fare acquisire una maturità equilibrata tra qualità umane, etiche, morali, civili, relazionali, che rappresentano le linee guida a cui un individuo si ispira in tutti gli ambiti che coinvolgono la sua vita: familiare, lavorativa, sociale, spirituale. In definitiva, educare significa formare la responsabilità delle scelte come membro della famiglia, come lavoratore, cittadino, consumatore, imprenditore, insegnante, politico, scienziato, ecc.
Di fronte all'oggettiva constatazione che esiste un "deficit di responsabilità" in diversi contesti – economico, sociale, individuale, culturale, politico – il tema dell'educazione diventa centrale per il suo potenziale contributo alla crescita economica e sociale e per essere una potente chiave di lettura della causa delle crisi, i cui aspetti economici che le influenzano dipendono prevalentemente dalle decisioni e dal comportamento umano, sia pubblico che privato, e quindi dalle responsabilità individuali e collettive.
Dal punto di vista dello sviluppo economico, l'educazione deve essere considerata pertanto un importante fattore produttivo immateriale, una risorsa indispensabile e insostituibile. Declinare il termine "sviluppo economico e sociale" a prescindere dall'educazione è molto riduttivo e rischia di interiorizzare gli effetti esterni e i relativi notevoli costi originati dal deficit educativo e di responsabilità. Purtroppo, la teoria economica ha trascurato nelle sue analisi tutte le variabili immateriali, molto probabilmente perché esse sono difficilmente misurabili dal punto di vista della produttività, focalizzando l'attenzione sulla produzione di beni tangibili e considerando razionale il comportamento dei soggetti economici.
A livello teorico, solo recentemente alcuni economisti hanno avanzato delle critiche alla razionalità delle scelte economiche prese in considerazione dalla teoria tradizionale, considerandola irrealistica in quanto approssimazione della realtà, sottolineando l'importanza che rivestono il contesto in cui si è inseriti e il fattore psicologico. È nato così un filone di studi interdisciplinari, noto come economia della mente o economia cognitiva, che ha dato luogo alla nascita di una nuova disciplina, la neuroeconomia, che sottolinea come le scelte sono il risultato di un processo mentale nel quale concorrono diversi elementi, che le tradizionali analisi economiche non hanno considerato come influenti nelle scelte razionali.
Tra i significativi contributi in questo senso ricordiamo inoltre la teoria della razionalità limitata, elaborata dal Premio Nobel per l'economia (1978) Herbert Simon, secondo cui le scelte economiche hanno un limite, rappresentato da situazioni di incertezza e da scarsa conoscenza della realtà, e la teoria della dipendenza razionale, elaborata dal Premio Nobel per l'economia (2006) Gary Becker, secondo cui le scelte economiche sono dipendenti da numerosi elementi presenti nel contesto reale in cui si vive. Tra questi elementi l'educazione gioca certamente un ruolo fondamentale, che ci fa affermare che i comportamenti dipendenti dall'educazione entrano a pieno titolo nell'analisi economica.
Alla luce del contesto attuale - che abbiamo definito un cantiere aperto di sfide e un punto di non ritorno - la confusione culturale, che viene percepita come inestricabile, e le reali istanze educative provenienti da diverse realtà, economica, sociale, civile, ma soprattutto dal mondo giovanile anche se spesso non palesemente espresse - ci portano a concludere che la sfida prioritaria del terzo millennio è soprattutto quella educativa, l'unica capace di superare la prova del tempo e di farla superare alle altre numerose sfide. La soluzione dei problemi economici attraverso leggi, tecnologia, gestione aziendale, politica economica sarà maggiormente efficiente se accompagnata dalla soluzione "a monte" del problema educativo. Maggiore efficienza economica significa raggiungere una più alta produttività attraverso l'agire economico responsabile, che si esprime in diverse forme, che richiamano a sua volta le diverse forme di educazione: educazione al consumo, al risparmio, al lavoro, alla difesa dell'ambiente, alla legalità, all'etica, alla democrazia, alla giustizia, al senso dello Stato, alla solidarietà, nonché alla responsabilità dell'impresa e alla responsabilità dei policy makers. Non si può non essere d'accordo che queste forme di educazione svolgono un ruolo determinante nel funzionamento del sistema economico e nell'allocazione ottima delle risorse scarse, mettendo in evidenza lo stretto legame tra economia ed educazione. In quest'ottica l'educazione merita di essere considerata l'investimento prioritario sul futuro, capace di realizzare il più elevato e lodevole progetto che è lo sviluppo umano e culturale, matrice di tutti gli altri sviluppi: economico, sociale e civile.
Chi ha il compito di educare? Certamente la famiglia è la prima istituzione dove l'educazione avviene per istinto naturale. L'altra importante istituzione è la scuola, dove l'educazione dipende o dalla capacità vocazionale del docente o da una programmazione del compito educativo in base alla consapevolezza del ruolo sociale che la scuola riveste. Queste due istituzioni, che in passato hanno rappresentato due modelli educativi, oggi incontrano non poche difficoltà, a causa del mutato scenario culturale in cui avvengono le relazioni educative, in ambito sia familiare che scolastico.
Da un lato, infatti, è cambiata la figura dell'educatore (genitori e insegnanti). È noto che oggi il ruolo educativo dei genitori è molto fragile, sia per il cambiamento del ruolo della donna all'interno della famiglia, sia per i mutati rapporti relazionali tra i generi e tra le generazioni. L'evoluzione (o l'involuzione) del ruolo educativo della famiglia è passato, nel corso dei decenni, da autoritario ad autorevole fino alla libertà quasi senza regole di oggi. Il ruolo educativo degli insegnati e la figura del "maestro" sono assorbiti oggi dall'impegno di considerare lo studente una risorsa economica, da formare per seguire i cambiamenti economici e produttivi e le dinamiche del lavoro, e non anche una risorsa umana da educare.
Dall'altro, è cambiata la figura del giovane educando, che, nonostante esiga l'indipendenza, mostra la necessità di avere dei modelli di riferimento e, vivendo in un contesto sociale frammentato, contraddittorio, individualista, competitivo e carente di figure di riferimento, spesso mostra forme di disagio, vecchie (relazionali, di demotivazione) e nuove (depressione, anoressia, bullismo, droga, violenza), che spesso non sono di origine psicologica ma "culturale", facendolo vivere in modo disorientato e incerto.
La complessità del compito educativo non deve però né scoraggiare né tantomeno trascurarne l'importanza. Soprattutto dal prolungarsi della crisi economica in atto e da questo periodo di cambiamenti epocali si deve cogliere l'opportunità di riflettere e di prendere coscienza che il futuro economico e civile si gioca sulla frontiera dell'educazione. Si rende pertanto indispensabile superare innanzitutto il paradosso secondo il quale l'educazione, da un lato, viene evocata da tutti e, dall'altro, l'impegno effettivo in campo educativo è molto carente. Da ciò emerge la necessità che, nella consapevolezza che l'educazione non è né un mestiere né una costrizione, ma una vocazione, tutti debbano sentirsi degli educatori, di sé stessi e degli altri, e attivare azioni educative in tutti gli ambiti in cui si opera. Ma, oltre all'impegno educativo, c'è da sottolineare che, come la metafora pedagogica indicata da F. Antonacci e F. Cappa ("Riccardo Massa: lezioni sulla peste, il teatro e l'educazione" F. Angeli, 2002), l'educazione si trasmette per contagio, come la peste, più che dal proponimento di tramandare nozioni e valori. In base a questo riconoscimento non sarebbe banale farsi provocare dalle grandi figure professionali, accademiche, politiche, come, per citarne alcune, Vittorio Bachelet, Giorgio La Pira, Luigi Einaudi, Don Luigi Sturzo, e altre figure quotidiane, conosciute e non, che sono passate alla storia, o sono rimaste nella memoria, non per la loro ricchezza materiale ma per il loro spessore morale e per la vita educata ed educatrice che hanno vissuto, dando un notevole contributo al tessuto economico e civile del Paese. Si tratta in sostanza di utilizzare l'intelligenza, propria del genere umano, per riappropriarsi della simpaty smithiana, secondo la quale l'uomo è guidato nelle sue azioni, consciamente o inconsciamente, dall'ambizione di ottenere l'approvazione morale, la simpaty appunto, dei suoi simili.
L'impegno educativo di ciascuno è pertanto indispensabile, ma tuttavia non è sufficiente per affermare solidamente schemi di condotta come base per la costruzione di un sistema economico e sociale più efficiente e più a misura della persona umana. È fondamentale che l'educazione non sia considerato un concetto astratto, ma il bene pubblico per eccellenza dalle autorità pubbliche, che, nell'oggettiva consapevolezza che si tratta di un bene non producibile, non devono sentirsi esonerati dall'impegno di considerare l'educazione l'ethos insostituibile tra crescita economica e qualità della vita – e quindi un "nuovo obiettivo e un nuovo strumento a lungo termine" - e il relativo investimento un filo rosso che lega tutte le politiche pubbliche: economica, sociale, del lavoro, scolastica, industriale, ambientale, familiare, giovanile, culturale, ecc. In particolare, le istituzioni pubbliche non devono sottovalutare il fattore "tempo", che deve spingere per giocare d'anticipo, e devono assumersi il complesso, ma anche affascinante, compito di esercitare un'azione ingegneristica in campo educativo, costruendo ponti per ridare maggiore prestigio e autorevolezza alle due istituzioni - la famiglia e la scuola – che più di tutte hanno l'occasione di essere dei "laboratori privilegiati e insostituibili" nella formazione dei giovani, oltre che incoraggiare quelle forze che sono pronte a mettersi in gioco come protagoniste attive dell'educazione e porre in atto interventi a favore di quelle realtà che già danno un contributo in termini educativi. Si contribuisce in questo modo ad eliminare quella forma di povertà subdola, cioè la povertà di educazione e di responsabilità.
Tornando alla ricerca di una exit strategy dalla complessa e peculiare crisi attuale, si è consapevoli dell'estrema difficoltà a raggiungere un suo superamento in tempi brevi, in quanto si tratta di una crisi integrata in una realtà che, per la prima volta, si presenta estremamente fragile e complessa per la coesistenza di innumerevoli sfide da affrontare, sia a livello nazionale che mondiale: dal debito pubblico al recupero di produttività e di competitività, alla disoccupazione, alla giustizia retributiva, alla povertà, al problema dell'immigrazione, agli scandali, alle disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo, al terrorismo, alla necessità di una governance globale. Tutti problemi che potenzialmente possono essere forieri di fenomeni incontenibili. Anche per questo non devono essere motivo di distrazione per guardare il futuro con lungimiranza, nel senso che, accanto agli interventi di politica economica, sia di natura anticiclica che strutturale, si metabolizzino e si innestino in un processo di sviluppo che abbia come obiettivo una migliore qualità della vita, sia in termini materiali che immateriali, i concetti di etica, di ben-essere e di educazione in tutte le sue forme, al fine di costruire un sistema economico e sociale a misura d'uomo e un sistema-mondo più democratico e solidale.
In quest'ottica è indispensabile l'apertura, sia dei singoli individui che degli Stati, verso la collaborazione, la giustizia, la sussidiarietà, la solidarietà e l'abbandono dell'individualismo. La crisi può, e deve, costituire un'opportunità per ripensare il modello economico fino ad oggi prevalente e far risorgere dalle sue ceneri un sistema economico e un sistema di vita più umani e sostenibili da lasciare in eredità alle generazioni future.
L'attualità e l'incertezza degli sviluppi della crisi non devono privarci tuttavia di due importanti ingredienti: l'ottimismo e la fiducia, che devono essere alimentati dalla consapevolezza che esistono risorse umane straordinariamente responsabili in ogni ambito della vita, economica, sociale e politica, che ci danno la certezza che il cosiddetto "malessere del benessere" porterà inevitabilmente ad una soluzione in cui tutti - individui, famiglie, imprese, istituzioni – troveranno un equilibrio tra crescita economica e ben-essere. Ottimismo e fiducia devono essere alimentati soprattutto dalla presenza dei giovani, che sono la vera risorsa economica e sociale del Paese, verso i quali deve essere rivolta una costante attenzione perché non siano considerati più dei "bamboccioni". Sono molti i giovani impegnati in famiglia, nello studio, nel lavoro, nel volontariato, nella politica, di cui si parla poco o niente. I giovani possiedono intelligenza, creatività e umanità sorprendenti, che aspettano di essere notate, diffuse e valorizzate. Qui si chiama in causa anche la responsabilità dei mass media che, oggi più che mai, hanno un ruolo culturalmente strategico nella diffusione delle informazioni, ma spesso mettono in rilievo più gli aspetti negativi della società, facendo passare messaggi pessimisti e diseducativi, piuttosto che informare sull'abbondante ricchezza di forze giovani impegnate, che meritano di avere riconoscimento e di essere riferimento per gli altri.
Di fronte alla gravità della crisi l'invito è rivolto soprattutto ai giovani, perché si rendano consapevoli dell'importanza della loro attenzione, del loro impegno e della loro capacità per leggere e interpretare la realtà in mutamento. La crisi offre loro l'opportunità di essere protagonisti attivi di questo periodo storico per apportare un contributo che non sia solo economico ma anche culturale, facendo recuperare all'economia la funzione sociale che le è propria. In sostanza anche i giovani devono sentirsi responsabili e utilizzare:
- l'intelligenza, per cogliere gli stimoli che vengono da più parti: dalla famiglia, dalla scuola, dal mondo del lavoro, dalle relazioni interpersonali e multietniche, dalle apprezzabili iniziative a favore dei giovani da parte del Ministero della Gioventù e della Direzione Generale Istruzione e Cultura della Commissione Europea;
- la creatività, per trovare rinnovati equilibri economici e sociali conformi ad una realtà in mutamento;
- l'umanità, per costruire un mondo più umano, equo, solidale e sostenibile.

Giovanna Acciarito è nata e vissuta a Vizzini, dove ha frequentato le scuole elementari e medie di 1° e di 2° grado, conseguendo il Diploma di Ragioniere e Perito Commerciale presso l'ITC. Subito dopo la laurea in Economia e Commercio, conseguita presso l'Università degli Studi di Catania, ha vinto una Borsa di studio di ricerca e di specializzazione in Gestione delle Risorse Idriche presso l'Istituto di Idraulica, Idrologia e Gestione delle acque della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Catania. Successivamente, ha vinto il concorso a Ricercatore nella Facoltà di Economia dell'Università di Catania, dove insegna Istituzioni di economia nel Corso di laurea in Economia aziendale. Per un curriculum vitae più completo si veda www.unict.it/Personale docente.
Recapiti: e-mail acciarit@unict.it, telefono 3386213167
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11/11/2011 | 5234 letture | 0 commenti
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