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Giovanni Verga e il cinema: l'eterna battaglia contro cineasti, censura, Mascagni e... se stesso
Nel suo suggestivo articolo «Le immagini "cinematografiche" nella
scrittura iconica verghiana», Lia Fava Guzzetta sottolinea come sin dalle
prime opere giovanili, come «I carbonari della montagna», lo stile
narrativo di Giovanni Verga sia caratterizzato da «un linguaggio imparentato
con un dettato che oggi chiameremmo tranquillamente cinematografico, proprio in
quanto basato sul succedersi delle inquadrature e realizzato mediante l'uso di
significanti che oggi non esiteremmo a definire "filmici", come la luce,
l'ombra, la sapiente gestione delle distanze e della prospettiva, la tecnica dei
piani, la sonorità in campo e fuori campo, le dissolvenze, la gestualità,
vera costante stilemica del Verga maggiore» (Fava Guzzetta, L. - 1996 – vedi
bibliografia). D'altra parte in un nostro precedente articolo – «Raccontare
in bianco e nero: Giovanni Verga fotogrago e il suo stile verista» – abbiamo
evidenziato come nei suoi lavori teatrali il grande scrittore catanese anticipò
il linguaggio delle sceneggiature cinematografiche, ed in un certo senso lo spirito
stesso del cinema in quanto per non tradire la trama verista ogni rappresentazione
doveva restare estremamente fedele al copione in tutti i suoi dettagli scenici.
Tuttavia l'invenzione dei fratelli Lumière non venne accolta con entusiasmo dal Verga, così come diversamente da lui, ad esempio, fece nei medesimi anni sempre a Catania il commediografo Nino Martoglio. Anzi, per tutti i venticinque o ventisei anni durante i quali l'autore della Cavalleria Rusticana convisse col cinema (dal 1896 al 27 gennaio 1922, data della sua morte) il rapporto con la "settima arte" fu sempre in qualche maniera conflittuale, spesso anche apertamente ostile, anche se, col passare degli anni, Verga finì col rimanere sempre più coinvolto dentro il mondo cinematografico.
I motivi di questo rapporto così difficile e ambivalente sono sostanzialmente di due tipi, uno prettamente tecnico, legato alla qualità del cinema di quei tempi, l'altro viceversa pertinente proprio al carattere ed alla mentalità di Verga. Cominciamo da quest'ultimo.
Una fondamentale caratteristica psicologica dello scrittore catanese era la sua quasi ossessiva "ricerca del consenso" da parte di tutti: del suo pubblico di lettori, della critica, degli altri intellettuali e scrittori, e, non bisogna dimenticarlo, anche delle belle signore aristocratiche, certamente non indifferenti alla sua fama. Era quindi molto sensibile sia agli eventuali insuccessi editoriali e teatrali delle sue nuove opere (che non furono rari), sia ai pareri negativi della critica. Con questa chiave psicologica potrebbero apparire – tra l'altro – anche più chiari certi aspetti inspiegabili della sua attività artistica, come ad esempio la sua difficoltà a scrivere anche gli altre tre romanzi del "ciclo dei vinti" da lui già preannunciati nell'introduzione a «I Malavoglia»: l'insuccesso editoriale tanto del romanzo ambientato ad Acitrezza quanto del «Mastro Don Gesualdo» sicuramente gli fecero dubitare anche della fortuna del terzo - «La duchessa di Leyra» – al quale svogliatamente tentò di lavorare per tutto il resto della sua vita.
Anche le polemiche – di tipo addirittura ideologico e politico – mossegli da certi critici come il Boutet, dovettero dargli tanta di quell'amarezza da giustificare i suoi periodi di inattività letteraria, durante i quali preferiva piuttosto curare le sue proprietà fondiarie. Ci teneva insomma a difendere la sua immagine di persona colta e raffinata negli ambienti più intellettuali ed altolocati, ed anche le semplici "voci di corridoio" (oggi lo chiameremmo "gossip") riuscivano a ferirlo.
Anche Verga dunque non esitò ad esprimere un giudizio negativo nei riguardi del nascente cinema per gli stessi identici motivi per cui veniva criticato da tanti altri intellettuali e scrittori italiani: era plateale e adatto alle masse analfabete, per le quali andavano bene tutti quei soggetti comici o melodrammatici, o anche quei film storici ridotti e parodiati (insomma era più o meno lo stesso atteggiamento degli odierni critici nei confronti dei cosiddetti "film di cassetta").
Il cinema di quei tempi aveva per di più anche dei grossi limiti tecnici che non gli permettevano di reggere il confronto, per esempio, con il più colto teatro. Innanzitutto era muto. Un fine scrittore come il Verga, per il quale i dialoghi tra i personaggi erano fondamentali per far risaltare il carattere drammatico e verista sia delle figure che della stessa trama, non poteva certo accontentarsi di qualche didascalia ogni mezz'ora di pellicola, mentre gli attori muovevano la bocca come pesci! La stessa tecnica delle riprese, e conseguentemente anche il medesimo linguaggio cinematografico che da esse scaturiva, era ancora grezzo e piatto. I registi di allora spesso si accontentavano di tenere fissa la cinepresa mentre gli interpreti recitavano davanti ad essa come in uno spazio angusto. Inoltre la qualità delle riprese non era ancora soddisfacente e dunque le movenze degli attori anche nei film più seri e drammatici risultavano poco spontanee ed espressive, talvolta anche con effetti comici.
Si può dunque comprendere come al pari di tanti altri intellettuali anche Verga considerasse il cinema dei suoi tempi come una sorta di avanspettacolo o di varietà, che non poteva assolutamente reggere il confronto con la completezza, la precisione e l'espressività drammatica del teatro. Non per nulla il grande scrittore catanese arrivava talvolta a litigare con gli stessi attori teatrali, anche quelli più acclamati e famosi. Nel caso della »Cavalleria rusticana», ad esempio, il grande attore catanese Giovanni Grasso si prese ad un certo punto la libertà di modificare il finale (che a differenza della novella non mostra il duello tra Alfio e Turiddu, che rimangono dietro le quinte). Prima che calasse il sipario, ritornava difatti improvvisamente in scena, e mentre veniva inseguito dagli attori che impersonavano i carabinieri mostrava agli spettatori atterriti il coltello tutto arrossato (di pomodoro probabilmente!) col quale aveva ucciso il rivale Turiddu. Quando Verga lo venne a sapere ed assistette sconvolto ad una di queste rappresentazioni nel gennaio del 1908, montò su tutte le furie e gli tolse il copione (insieme a quello de «La lupa»). In una lettera dello stesso periodo indirizzata all'amico svizzero Eduard Rod, dopo avergli raccontato l'accaduto, si espresse significativamente in questi termini: «Per conto mio se devo essere fischiato voglio essere fischiato a modo mio, non col criterio di cotesti istrioni. Ah, caro Rod, che miseria e che cosa infetta il teatro!» (lettera del 29 gennaio 1908).
Eppure proprio la sua opera teatrale più famosa – e forse anche una trasposizione cinematografica che ne fece lo stesso Giovanni Grasso – finì per trascinare Verga dentro il mondo del cinema. Si ha notizia già per l'anno 1901 di una «Cavalleria Rusticana?!» in versione cinematografica e comica (proprio con l'aggiunta finale di un punto interrogativo e di uno esclamativo). Non si sa se Verga in quell'occasione ne fu informato, nè se alcuni anni dopo venne a conoscenza di un'altra versione del suo dramma girata nel 1908 dal medesimo attore Giovanni Grasso e dagli altri membri della sua compagnia mentre erano in tournèe in Argentina. Dal momento che in quel lontano paese non avevano ancora valore i diritti d'autore relativi a quell'opera, tanto il regista Mario Gallo (un immigrato pugliese fondatore del cinema in Argentina) quanto gli attori si sentirono liberi di produrre la pellicola. In ogni caso, che sia venuto a conoscenza o meno di tale sfruttamento del suo soggetto, Verga proprio l'anno successivo, nel 1909, accettò l'offerta della francese Acad (Association Cinèmatographique des Auteurs Dramatiques di Parigi) che gli chiedeva di cedergli i diritti di sfruttamento dell'opera teatrale per il cinema. Proprio in quel periodo infatti la «Cavalleria Rusticana» stava riscuotendo un notevole successo a Parigi anche grazie alla traduzione che ne aveva fatto Giulia Dembowska (più nota con lo pseudonimo di Darsenne) insieme a Paul Solanges. Verga concesse alla società parigina diritti illimitati nel tempo e per tutti i paesi in cambio di 500 franchi da dividersi però a metà proprio con la Dembowska che si incaricò di curarne la sceneggiatura. Questa, molto correttamente, una volta terminatala gliela spedì chiedendogli di approvarla ed eventualmente di modificarla, ma il Verga, che pur comprendeva i limiti di una sceneggiatura per un film muto, non riusciva a capire come si potessero eliminare i dialoghi dalla sua opera teatrale più famosa, e senza quasi neppure leggerla gliela rispedì col suo benestare («capisco bene le diverse esigenze dello svolgimento scenico per la cinematografia, ma appunto per questa diversità era meglio che io autore delle scene parlate non vedessi», dalla lettera a Marco Praga, 27 dicembre 1909). Non è escluso comunque che in quel momento le sue aspettative non fossero solo quelle di intascare i 250 franchi, ma soprattutto – come prospettatogli anche dal suo amico e traduttore francese Paul Solanges in una lettera del 22 novembre 1909 - che la versione cinematografica "promuovesse" ancora per altri anni il successo delle rappresentazioni teatrali della medesima opera in Francia (come in effetti avvenne). È questa, come vedremo, una chiave interpretativa interessante anche per intendere il successivo "Verga sceneggiatore" (cfr. Longo, G. - La Cavalleria rusticana del 1910, vedi bibliografia).
Il film uscì l'anno successivo, il 1910, ma allo scrittore catanese che l'andò a vedere per curiosità non piacque affatto («Una rappresentazione che io non arrivavo a capire quando andai per curiosità a vederla. Ma tant'è così serviva a loro», come scrisse il 17 gennaio del 1912 in una lettera alla sua compagna Dina Sordevolo). Ancora più severi e sferzanti furono però i giudizi della critica, come ad esempio quello della rivista «L'Arte Muta» (per la verità, di alcuni anni dopo, nel 1916) che parlò senza mezzi termini di «disgusto» ed «ilarità», «sacrilegio» e «parodia». Se Verga venne a conoscenza di siffatti commenti, possiamo ben immaginare come dovettero reagire le "viscere paterne" del povero scrittore catanese, e come venne ancor più maturando la sua avversione nei confronti del cinema, dei cineasti, e degli sceneggiatori vari.
Un paio di anni più tardi, tuttavia, di fronte ai problemi finanziari della sua compagna, Dina Castellazzi di Sordevolo (su suggerimento di un comune amico, Giannino Antona-Traversi) che gli prospettava grossi guadagni dallo sfruttamento cinematografico delle sue opere, Verga inizia quel percorso che lo porterà nel giro di qualche anno a scrivere sceneggiature per il cinema e addirittura a diventare socio di una società cinematografica. Illuminanti sono a questo proposito le lettere indirizzate a Dina nel biennio '12-'13 che testimoniano il progressivo "stemperamento" delle sue ritrosie e diffidenze (che non saranno mai del tutto eliminate). Dapprima Verga – nella lettera del 17 gennaio 1912 - mette a disposizione della compagna le novelle, i drammi ed i romanzi che le servono, a suo totale beneficio economico, rifiutandosi però di sceneggiarle, non reputandosi adatto, e lasciando che sia lei a provarci insieme agli sceneggiatori «che sanno come va preso il loro pubblico». Il 20 febbraio in un'altra lettera si informa sull'attività di sceneggiatrice di Dina ed esprime dei giudizi rivelatori sul cinema dei suoi tempi: «il cinematografo oggi ha invaso talmente il campo e ha bisogno di soggetti o temi col quale abbruttire il pubblico e accecare la gente, che io spero Giannino ti abbia aiutato a collocare qualcuna delle nostre fiabe; anzi voglio sperare che tu sia occupata a sceneggiare il soggetto, o per meglio dire a indicare i punti di cui gli attori appositi devono giovarsi per illustrare il soggetto colle loro smanie e i loro salti mortali. Basta il punto è che paghino».
A quanto pare però in quel periodo Dina ha qualche difficoltà a sceneggiare i soggetti verghiani, e dunque chiede aiuto al compagno che perlomeno le invii degli "schemi". Nelle lettere del 23 marzo e 6 aprile del medesimo anno Verga sembra disposto a fare quest'altro passo, pregando però Dina «di non dire che sia stato io a farlo, per un riserbo d'autore che voi comprenderete certo» (23 marzo). Ma quanto al lavoro di sceneggiatura vero e proprio non ne vuol sapere, non soltanto perchè incapace di adattare il suo stile raffinato alla semplicità e grossolanità della tecnica cinematografica dei suoi tempi («ingrossamento fotografico» lo definisce) ma anche per coerenza con la sua dignità di artista: «Figuratevi le mie viscere paterne, ed anche un poco il mio amor proprio d'autore, se volete, per me è questione di probità letteraria quasi. Non posso.» (6 aprile). Ma Dina insiste e cerca di affidare il lavoro di sceneggiatore al nipote, forse anche per approfittare del fatto che porta lo stesso nome dello scrittore. Dopo qualche settimana infatti Verga in tono tra il rassegnato e l'esasperato, cede: «Farò il lavoro che vorreste affidato a mio nipote. Ma credete che potrebbe cavarsene lui se io stesso mi ci sento a disagio? Ma vi prego e vi scongiuro di non dir mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle mie cose» (25 aprile).
Nel settembre del medesimo anno 1912, l'Itala Film di Torino offre a Dina di lavorare alla riduzione cinematografica di Tigre Reale in cambio di 600 lire. Verga la invita ad accettare prontamente l'offerta sperando di poter piazzare anche la sceneggiatura di «Storia di una capinera» alla quale Dina – o "chi per lei" - ha già messo mano. Quest'ultima sceneggiatura però viene completata da Verga solo nel maggio del 1913 e spedita alla Sordevolo il 15 dello stesso mese accompagnandola con la solita preghiera: «non voglio confessarmi autore di simili contraffazioni artistiche, buone soltanto a cavarne qualche utile, se potesse a voi servire. Fatemi dunque il gran favore di tenermi il segreto, e di ricopiare, quando ne avrete il tempo, il manoscritto, che darete come cosa vostra, per cui è stata fatta difatti, cara amica mia. I miei sgorbii poi me li rimanderete, che su quella traccia voglio scrivere un lavoruccio teatrale, se mi riesce, prosa o musica che sia». Poco più di un mese dopo, il 17 giugno, lo scrittore catanese le fa pervenire anche la sceneggiatura di «Caccia al lupo» (sempre con le allegate raccomandazioni), ma sempre nello stesso mese di giugno in una lettera datata giorno 28, le preannunzia, forse con un pizzico di entusiasmo artistico in più, la sua intenzione di lavorare anche a un "bozzetto" del suo lavoro teatrale «Caccia alla volpe», «che se mi riesce farà il buon paio con la Caccia al lupo». Sembra di intuire che Verga proprio a metà del 1913 cominci quasi a prenderci gusto nel trasformare le sue opere in sceneggiature.
Ma il solito ironico destino del grande scrittore, quello cioè di essere smentito dai fatti ogni volta che crede in un'opera – letteraria, teatrale, o come in questo caso cinematografica - comincia anche stavolta a mettergli i bastoni tra le ruote. All'inizio di luglio (cioè pochi giorni dopo la lettera del 28 giugno) la censura dell'allora governo Giolitti pone il veto sulla sceneggiatura di «Storia di una capinera» in precedenza giudicata da Verga stesso «innocente e bambinesca», suscitando sorpresa e sarcastici commenti contro la censura medesima da parte dello scrittore. Anche tutti i successivi e promettenti contatti dell'inizio del 1914 si risolveranno in un nulla di fatto. In quel periodo sia la Morgana Film di Martoglio, sia – a quanto sembra da una lettera di Capuana del 7 marzo 1914 – la Etna Film, due neocostituite società cinematografiche, lo invitano infatti a collaborare, ma ambedue le opportunità poi sfumano anche per la breve vita delle due case di produzione. Nemmeno l'intenzione di Verga di riscattare dalla società parigina Acad i diritti illimitati sulla «Cavalleria rusticana» - ceduti come si ricorderà nel 1909 – vanno in porto, nonostante l'interessamento di Federico De Roberto, a causa delle difficoltà poste dallo scoppio della prima guerra mondiale.
Poi però all'inizio del 1916 per il Verga "cineasta" tutti i nodi cominciano a sciogliersi. A metà febbraio, del '16 appunto, esce il film «Tigre reale» dell'Itala Film, per la regia di Piero Fosco (pseudonimo in realtà di Giovanni Pastrone, il famoso regista del kolossal Cabiria) con la bella e passionale attrice Pina Menichelli nei panni della contessa Natka, impietosamente "sforbiciata" dalla censura di Stato. Come nell'omonimo romanzo di Verga, il film tratta dell'amore tra il diplomatico Giorgio La Ferlita e la contessa russa Natka, che nella prima parte della pellicola racconta al giovane la sua odissea nella Siberia zarista, per ricongiungersi al suo precedente amante Dolski, poi morto suicida per amore suo. Il film poi si conclude con l'incendio dell'albergo dove Natka e Giorgio si sono dati appuntamento, e dove vengono scoperti proprio in quell'occasione dal marito di lei, il quale pazzo di gelosia li chiude a chiave nella loro camera per farli morire tra le fiamme. Ma i due amanti riescono a salvarsi, mentre è il perfido marito della bella russa che muore abbrustolito.
Sempre all'inizio del 1916 Verga riesce finalmente a riscattare dall'ente francese Acad i diritti di «Cavalleria rusticana» per cederli subito ad Ugo Falena (della Tespi Film di Roma) il quale viene a Catania a girare gli esterni del nuovo film. Verga, sempre diffidente, questa volta vuole essere presente sul set, per accertarsi che la "sua" «Cavalleria riesca» come si deve. Contemporaneamente però la Flegrea Film di Roma gira un'altra Cavalleria per la regia di Ubaldo Maria del Colle e autorizzata da Mascagni e Sonzogno, e nello stesso tempo diffida pubblicamente l'esecuzione della musica dell'omonima opera lirica durante la proiezione di altre versioni cinematografiche (compresa quindi quella di Verga-Falena). In breve, tra diffide e controdiffide si riapre anche in campo cinematografico la controversia giudiziaria tra Verga e Mascagni che a livello teatrale si era risolta nel 1893 con la vittoria di Verga (questa volta la vertenza si trascinerà fino addirittura al 1977, con i rispettivi eredi).
Nel medesimo anno 1916, in aprile, però avviene anche un'altra importante svolta nell'attività cinematografica di Verga: accetta di diventare socio di una società cinematografica di Milano, la Silentium Film diretta dal Conte Luigi Grabinski Broglio, e che vede la partecipazione anche di altri scrittori famosi. La medesima casa di produzione acquisisce da Verga tre soggetti: «Eva», «Caccia al lupo» e «Storia di una capinera». In appena quattro anni il grande scrittore catanese passa praticamente dall'aperta ostilità al cinema all'ufficiale partecipazione ad una società cinematografica. Se il lato economico ha certamente la sua importanza in tale percorso, tuttavia forse pesa anche la segreta speranza dello scrittore che anche le sue opere minori, che rischiano di cadere nell'oblio, possano ricevere "risveglio" e popolarità proprio tramite il cinema, così come accaduto per la versione teatrale di «Cavalleria Rusticana» il cui successo, già a suo tempo accresciuto dall'opera di Mascagni, aveva ottenuto maggiore ampiezza dalla versione cinematografica francese del 1910. Significativo in tal senso sembra ad esempio l'estrema cura che Verga pose nella sceneggiatura di «Caccia al lupo» sulla quale lavorò per parecchi mesi, quasi forse a cercare di riparare l'insuccesso avuto a suo tempo dalla versione teatrale.
Nonostante la nutrita presenza di scrittori e l'alto livello culturale, i rapporti tra Verga e la Silentium Film non sempre furono idilliaci nei quattro anni di collaborazione con essa (finchè cioè la società non venne sciolta nel 1920). In primo luogo perchè non voleva compromettere più di tanto nè il suo nome nè la sua immagine. Il 9 febbraio del 1917, ad esempio, Verga invia alla Silentium, come richiestogli, un sunto del soggetto di «Caccia al lupo» di questo tenore: «per cacciare il lupo, sulla montagna, i pastori di solito preparano una buca cieca, nascosta dagli sterpi, e vi legano un'agnelletta onde attrarre la mala bestia; la quale accorre al richiamo, e cade nel trabocchetto insieme alla vittima; ma non la tocca neppure, dopo, quasi presago della sorte che l'attende, e fa sforzi disperati per uscirne. Così una notte di vento e di pioggia – vero tempo da lupi – Lollo e Musarra colgono in trappola Bellamà, ch'è proprio il lupo pei mariti, da quelle parti, e gli ha preso la donna, a tutti e due». Dovendo tuttavia servire per la promozione del film sulle riviste e non essendo tale trama giudicata soddisfacente, il 6 marzo del 1917 il direttore artistico Marco Praga gli spedisce un altro testo - dal tono evidentemente troppo "reclamizzante" - perchè lo approvi, ma Verga reagisce indignato non approvando nè il testo nè l'idea di coinvolgerlo a quel modo nella pubblicità del film, come un "banditore" di paese («la cinematografia avrà le sue esigenze, come tu dici, ma io ho pure quella della mia coscienza artistica, e della mia ripugnanza a battere il tamburone in qualunque modo e sotto qualsiasi forma» - 9 marzo 1917). Ma si indigna anche quando, una volta uscito il film, viene a sapere che in una copia distribuita c'è proprio all'inizio una sua immagine (forse una semplice dimenticanza del regista Giuseppe Sterni), quasi come una copertina pubblicitaria.
Il suo temperamento acceso fu costretto a fare i conti tra l'altro anche con gli ostacoli della censura che giudicarono ad esempio il medesimo «Caccia al lupo» troppo drammatico specie nella conclusione. Verga allora assunse un atteggiamento ironico e stravolse con molta disinvoltura il finale, mutandolo da tragico addirittura in comico. Per interessamento però del medesimo direttore della Silentium, il conte Broglio, la censura alla fine, il 1 dicembre 1917, diede il suo visto al film con il suo corretto finale (solo leggermente "ammorbidito"), insieme all'altro film a cui aveva posto ostacoli, la «Storia di una capinera». Nel 1918 uscì un altro film verghiano, «Una peccatrice» (storia dell'alterno e volubile amore di Pietro Brusio per la contessa Narcisa, che alla fine sentendosi abbandonata si avvelena) ma prodotto da un'altra società, la Polifilm di Napoli, in quanto in base ad accordi, mai sufficientemente chiariti per la verità, tra Verga e la Silentium di Milano, lo scrittore catanese era libero di cedere ad altre società i soggetti non accettati dalla Casa di cui era socio (cosa che comunque non mancò di produrre ulteriori dissapori). In ogni caso nel 1919 uscì anche il terzo film verghiano prodotto dalla Silentium, «Eva» (storia, anche questa, ma con ruoli rovesciati, del volubile amore di Eva, ballerina "ammaliatrice" per il pittore Enrico Lanti, che alla fine va a morire povero e malato nel suo paesello natale) per la regia di Ivo Illuminati.
Tutti questi film vennero accolti dalla critica del tempo in maniera alterna: se «Caccia al lupo» venne osannato da Giulio Amedeo Vari sulla rivista «La Cine-fono» (10 marzo 1918), «Una peccatrice» venne giudicato male non solo dal punto di vista della qualità cinematografica, ma anche per la sceneggiatura e per lo stesso soggetto («Il romanzo non vale molto, ma la cinematografia addirittura niente» - C. Zappia, in «Cronache dell'attualità cinematografica», 30 gennaio 1919). Ma lì dove la critica si scagliò fu soprattutto contro la «Storia di una capinera». Il racconto della povera Maria, amata dal giovane Nino e obbligata dalla matrigna ad entrare in convento per lasciare campo libero in amore alla sorellastra, non piacque affatto, nemmeno come soggetto e sceneggiatura – che erano di Verga medesimo – alla critica dell'epoca. «C'è una stupidaggine colossale: la protagonista si fa monaca e siccome, dopo la vestizione, impazzisce, le altre monache la cacciano, mediante un congegno di usci misteriosi, in una cella dove c'è un'altra pazza furente; così fanno gli accalappiacani quando ghermiscono un cane randagio e lo gettano sul carretto ricolmo di cani, magari arrabbiati. Sarà permesso di trattare in simil modo le bestie, non già le persone; gettare tra i piedi di una pazza un'altra pazza sarebbe, nella vita, un delitto raccapricciante ed è, in cinematografia, una stupidaggine. A parte ciò, lo scenario è così mal fatto e peggio inscenato che non meriterebbe la pena nemmeno di parlarne. Per quattro lunghi atti non si vedono che facce torve e doloranti; mai un sorriso nè un lampo di buon umore. È un funerale da capo a fondo. La più funerea è la protagonista, Linda Pini. La sua bellezza è qui completamente sacrificata. Sono funerari anche gli altri interpreti, ma almeno quelli sono brutti. Anche la fotografia ha lo stesso carattere. Insomma, un lavoro mancato: uno sbaglio.» (Tito Alacci in: Film, 10-4-1918). Possiamo immaginare l'umore del povero Verga di fronte a tali critiche (poichè certamente ne venne a conoscenza), e come il suo pessimismo acuito dalla vecchiaia ne venisse oltremodo alimentato, tanto da prendersela nell'aprile del 1919 persino con l'epidemia influenzale "spagnola" che non voleva portarselo via!
Quasi come un'ironica e paradossale beffa del mondo del cinema, il 2 ottobre del 1920 la «Società Autori Cinematografici» fondata da poco a Genova lo invitò ad aderire, salutandolo come «uno degli autori cinematografici più universalmente noti e più unanimemente amati».
L'ultimo film che Verga vide uscire mentre era ancora in vita fu «Il marito di Elena» (1921), prodotto dalla Chimera Film di Roma per la regia di Riccardo Cassano. La trama è la classica crisi coniugale - che però finisce in tragedia - tra Cesare Dorello, marito spiantato, e la sua bella moglie Elena, che si lascia corteggiare da altri uomini, ricchi e di successo. Allorchè la donna grida in faccia al marito tutto il suo disprezzo, quest'ultimo, impazzito, la uccide pugnalandola.
Oltre a qualche copia superstite dei film girati in quell'ultima stagione della sua vita, di Verga ci rimangono le seguenti sceneggiature: «Caccia al lupo», «Caccia alla volpe», «Storia di una capinera», «Storie e leggende» (tratte da «Storie del castello di Trezza») e, naturalmente, «Cavalleria rusticana».
Ma molto di più – forse anche al di là delle sue stesse intenzioni – fu ciò che lasciò in eredità al cinema medesimo. Dopo la parentesi dannunziana e retorica della cinematografia successiva, nel 1941 alcuni giovani cineasti – quali Visconti, Lizzani, Antonioni ed altri – ricercando un nuovo modello di cinema dichiararono esplicitamente di volersi ispirare a Verga, alla sua letteratura, al suo teatro ed anche a ciò che rimaneva del suo cinema, aprendo quindi la strada alla cinematografia neorealista. Tecnicamente ed anche artisticamente molto più evoluto del cinema muto, il neorealismo cinematografico forse sarebbe stato apprezzato molto di più dal grande artista catanese - se non altro in quanto dotato di sonoro - proprio perchè in realtà era proprio quel tipo di cinema che aveva anticipato con le sue dettagliate e rigorose sceneggiature teatrali. Non è escluso quindi che le versioni neorealiste di alcuni suoi celebri soggetti - anche se un po' rimaneggiati - come «La lupa» (1953) girato da Alberto Lattuada tra i sassi di Matera, e soprattutto il celebre film di Visconti, «La terra trema» del 1948 (tratto com'è noto da «I Malavoglia») avrebbero potuto anche condurlo ad amare il cinema.
Fonti di riferimento
Per la stesura di questo articolo sono stati consultati quasi esclusivamente due volumi – curati dai medesimi autori – ricchi di saggi ed informazioni sui rapporti di Verga col cinema:
Sebastiano Gesù, Nino Genovese: Verga e il cinema – Maimone editore, Catania, 1996.
Sebastiano Gesù, Nino Genovese: La Sicilia e il cinema – Maimone editore, Catania, 1993.
Di seguito si riportano alcuni saggi specifici, tra quelli contenuti nei due volumi, di maggiore rilevanza per il presente articolo.
Gesù, S., Genovese, N. - Cinema e letterati siciliani – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) La Sicilia e il cinema – op. cit.
Genovese, N. - Gesù, S. - Verga e il cinema: «Castigo di Dio» o «San Cinematografo» - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema - op. cit. (ripercorre, tra l'altro, tutto il percorso "cinematografico" di Verga, dal 1909 fino alla sua eredità nel cinema italiano. In merito a quest'ultima vale la pena riportare quanto scritto su la rivista «Cinema» nel 1941 da parte dei giovani registi propugnatori di un nuovo cinema: «I lettori più intelligenti avranno a questo punto capito, che il nostro discorso, sbocca necessariamente, come primo suggerimento, ad un nome: quello di Giovanni Verga. Giovanni Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società: a noi che crediamo nell'arte specialmente in quanto creatrice di verità, la Sicilia omerica e leggendaria dei Malavoglia, di Mastro don Gesualdo, dell'Amante di Gramigna, di Jeli il pastore, ci sembra nello stesso tempo di offrire l'ambiente più solido e umano, più miracolosamente vergine e vero, che possa ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti in un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese. A chi va a caccia di falsità, di retorica, di medaglie di pessimo conio, dietro gli esempi di altre produzioni cinematografiche cui la perfezione tecnica non salva dalla miseria umana e dalle povertà di ragioni alle quali esse fanno appello, i racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un'arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera». Alicata, M. - De Santis G., Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in : Cinema, n. 127, 10 ottobre 1941 citato nel medesimo articolo, p. 17).
Fava Guzzetta, L. - Le immagini "cinematografiche" nella scrittura iconica verghiana - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Genovese, N. - Per una storia di Cavalleria rusticana: dalla novella ai film - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit. (riporta informazioni sull'attore catanese Giovanni Grasso e sulle sue interpretazioni della Cavalleria).
Comuzio, E. - Cavalleria rusticana tra novella, film, teatro e musica – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Longo, G. - La Cavalleria rusticana del 1910 – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Zappulla Muscarà, S. - Giovanni Verga soggettista cinematografico – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema – op. cit.
Tagliabue, C. - Letteratura, cinema e industria nel periodo del muto – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema – op. cit.
Riccardi, C. - «Gli artisti parlano ?» La versione "muta« di Caccia alla volpe. - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit. (sottolinea, tra l'altro, le difficoltà di Verga di adattare le sue opere al cinema "muto").
Bufalino, G. - Per Giovanni Verga – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Nicastro, G. - Teatro e società in Sicilia (1860-1918) – Bulzoni, Roma, 1978 (cfr. il capitolo II per le polemiche della critica del tempo nei confronti di Verga autore teatrale).
(Si ringrazia per l'articolo Ignazio Burgio, di CataniaCultura.com)
Tuttavia l'invenzione dei fratelli Lumière non venne accolta con entusiasmo dal Verga, così come diversamente da lui, ad esempio, fece nei medesimi anni sempre a Catania il commediografo Nino Martoglio. Anzi, per tutti i venticinque o ventisei anni durante i quali l'autore della Cavalleria Rusticana convisse col cinema (dal 1896 al 27 gennaio 1922, data della sua morte) il rapporto con la "settima arte" fu sempre in qualche maniera conflittuale, spesso anche apertamente ostile, anche se, col passare degli anni, Verga finì col rimanere sempre più coinvolto dentro il mondo cinematografico.
I motivi di questo rapporto così difficile e ambivalente sono sostanzialmente di due tipi, uno prettamente tecnico, legato alla qualità del cinema di quei tempi, l'altro viceversa pertinente proprio al carattere ed alla mentalità di Verga. Cominciamo da quest'ultimo.
Una fondamentale caratteristica psicologica dello scrittore catanese era la sua quasi ossessiva "ricerca del consenso" da parte di tutti: del suo pubblico di lettori, della critica, degli altri intellettuali e scrittori, e, non bisogna dimenticarlo, anche delle belle signore aristocratiche, certamente non indifferenti alla sua fama. Era quindi molto sensibile sia agli eventuali insuccessi editoriali e teatrali delle sue nuove opere (che non furono rari), sia ai pareri negativi della critica. Con questa chiave psicologica potrebbero apparire – tra l'altro – anche più chiari certi aspetti inspiegabili della sua attività artistica, come ad esempio la sua difficoltà a scrivere anche gli altre tre romanzi del "ciclo dei vinti" da lui già preannunciati nell'introduzione a «I Malavoglia»: l'insuccesso editoriale tanto del romanzo ambientato ad Acitrezza quanto del «Mastro Don Gesualdo» sicuramente gli fecero dubitare anche della fortuna del terzo - «La duchessa di Leyra» – al quale svogliatamente tentò di lavorare per tutto il resto della sua vita.
Anche le polemiche – di tipo addirittura ideologico e politico – mossegli da certi critici come il Boutet, dovettero dargli tanta di quell'amarezza da giustificare i suoi periodi di inattività letteraria, durante i quali preferiva piuttosto curare le sue proprietà fondiarie. Ci teneva insomma a difendere la sua immagine di persona colta e raffinata negli ambienti più intellettuali ed altolocati, ed anche le semplici "voci di corridoio" (oggi lo chiameremmo "gossip") riuscivano a ferirlo.
Anche Verga dunque non esitò ad esprimere un giudizio negativo nei riguardi del nascente cinema per gli stessi identici motivi per cui veniva criticato da tanti altri intellettuali e scrittori italiani: era plateale e adatto alle masse analfabete, per le quali andavano bene tutti quei soggetti comici o melodrammatici, o anche quei film storici ridotti e parodiati (insomma era più o meno lo stesso atteggiamento degli odierni critici nei confronti dei cosiddetti "film di cassetta").
Il cinema di quei tempi aveva per di più anche dei grossi limiti tecnici che non gli permettevano di reggere il confronto, per esempio, con il più colto teatro. Innanzitutto era muto. Un fine scrittore come il Verga, per il quale i dialoghi tra i personaggi erano fondamentali per far risaltare il carattere drammatico e verista sia delle figure che della stessa trama, non poteva certo accontentarsi di qualche didascalia ogni mezz'ora di pellicola, mentre gli attori muovevano la bocca come pesci! La stessa tecnica delle riprese, e conseguentemente anche il medesimo linguaggio cinematografico che da esse scaturiva, era ancora grezzo e piatto. I registi di allora spesso si accontentavano di tenere fissa la cinepresa mentre gli interpreti recitavano davanti ad essa come in uno spazio angusto. Inoltre la qualità delle riprese non era ancora soddisfacente e dunque le movenze degli attori anche nei film più seri e drammatici risultavano poco spontanee ed espressive, talvolta anche con effetti comici.
Si può dunque comprendere come al pari di tanti altri intellettuali anche Verga considerasse il cinema dei suoi tempi come una sorta di avanspettacolo o di varietà, che non poteva assolutamente reggere il confronto con la completezza, la precisione e l'espressività drammatica del teatro. Non per nulla il grande scrittore catanese arrivava talvolta a litigare con gli stessi attori teatrali, anche quelli più acclamati e famosi. Nel caso della »Cavalleria rusticana», ad esempio, il grande attore catanese Giovanni Grasso si prese ad un certo punto la libertà di modificare il finale (che a differenza della novella non mostra il duello tra Alfio e Turiddu, che rimangono dietro le quinte). Prima che calasse il sipario, ritornava difatti improvvisamente in scena, e mentre veniva inseguito dagli attori che impersonavano i carabinieri mostrava agli spettatori atterriti il coltello tutto arrossato (di pomodoro probabilmente!) col quale aveva ucciso il rivale Turiddu. Quando Verga lo venne a sapere ed assistette sconvolto ad una di queste rappresentazioni nel gennaio del 1908, montò su tutte le furie e gli tolse il copione (insieme a quello de «La lupa»). In una lettera dello stesso periodo indirizzata all'amico svizzero Eduard Rod, dopo avergli raccontato l'accaduto, si espresse significativamente in questi termini: «Per conto mio se devo essere fischiato voglio essere fischiato a modo mio, non col criterio di cotesti istrioni. Ah, caro Rod, che miseria e che cosa infetta il teatro!» (lettera del 29 gennaio 1908).
Eppure proprio la sua opera teatrale più famosa – e forse anche una trasposizione cinematografica che ne fece lo stesso Giovanni Grasso – finì per trascinare Verga dentro il mondo del cinema. Si ha notizia già per l'anno 1901 di una «Cavalleria Rusticana?!» in versione cinematografica e comica (proprio con l'aggiunta finale di un punto interrogativo e di uno esclamativo). Non si sa se Verga in quell'occasione ne fu informato, nè se alcuni anni dopo venne a conoscenza di un'altra versione del suo dramma girata nel 1908 dal medesimo attore Giovanni Grasso e dagli altri membri della sua compagnia mentre erano in tournèe in Argentina. Dal momento che in quel lontano paese non avevano ancora valore i diritti d'autore relativi a quell'opera, tanto il regista Mario Gallo (un immigrato pugliese fondatore del cinema in Argentina) quanto gli attori si sentirono liberi di produrre la pellicola. In ogni caso, che sia venuto a conoscenza o meno di tale sfruttamento del suo soggetto, Verga proprio l'anno successivo, nel 1909, accettò l'offerta della francese Acad (Association Cinèmatographique des Auteurs Dramatiques di Parigi) che gli chiedeva di cedergli i diritti di sfruttamento dell'opera teatrale per il cinema. Proprio in quel periodo infatti la «Cavalleria Rusticana» stava riscuotendo un notevole successo a Parigi anche grazie alla traduzione che ne aveva fatto Giulia Dembowska (più nota con lo pseudonimo di Darsenne) insieme a Paul Solanges. Verga concesse alla società parigina diritti illimitati nel tempo e per tutti i paesi in cambio di 500 franchi da dividersi però a metà proprio con la Dembowska che si incaricò di curarne la sceneggiatura. Questa, molto correttamente, una volta terminatala gliela spedì chiedendogli di approvarla ed eventualmente di modificarla, ma il Verga, che pur comprendeva i limiti di una sceneggiatura per un film muto, non riusciva a capire come si potessero eliminare i dialoghi dalla sua opera teatrale più famosa, e senza quasi neppure leggerla gliela rispedì col suo benestare («capisco bene le diverse esigenze dello svolgimento scenico per la cinematografia, ma appunto per questa diversità era meglio che io autore delle scene parlate non vedessi», dalla lettera a Marco Praga, 27 dicembre 1909). Non è escluso comunque che in quel momento le sue aspettative non fossero solo quelle di intascare i 250 franchi, ma soprattutto – come prospettatogli anche dal suo amico e traduttore francese Paul Solanges in una lettera del 22 novembre 1909 - che la versione cinematografica "promuovesse" ancora per altri anni il successo delle rappresentazioni teatrali della medesima opera in Francia (come in effetti avvenne). È questa, come vedremo, una chiave interpretativa interessante anche per intendere il successivo "Verga sceneggiatore" (cfr. Longo, G. - La Cavalleria rusticana del 1910, vedi bibliografia).
Il film uscì l'anno successivo, il 1910, ma allo scrittore catanese che l'andò a vedere per curiosità non piacque affatto («Una rappresentazione che io non arrivavo a capire quando andai per curiosità a vederla. Ma tant'è così serviva a loro», come scrisse il 17 gennaio del 1912 in una lettera alla sua compagna Dina Sordevolo). Ancora più severi e sferzanti furono però i giudizi della critica, come ad esempio quello della rivista «L'Arte Muta» (per la verità, di alcuni anni dopo, nel 1916) che parlò senza mezzi termini di «disgusto» ed «ilarità», «sacrilegio» e «parodia». Se Verga venne a conoscenza di siffatti commenti, possiamo ben immaginare come dovettero reagire le "viscere paterne" del povero scrittore catanese, e come venne ancor più maturando la sua avversione nei confronti del cinema, dei cineasti, e degli sceneggiatori vari.
Un paio di anni più tardi, tuttavia, di fronte ai problemi finanziari della sua compagna, Dina Castellazzi di Sordevolo (su suggerimento di un comune amico, Giannino Antona-Traversi) che gli prospettava grossi guadagni dallo sfruttamento cinematografico delle sue opere, Verga inizia quel percorso che lo porterà nel giro di qualche anno a scrivere sceneggiature per il cinema e addirittura a diventare socio di una società cinematografica. Illuminanti sono a questo proposito le lettere indirizzate a Dina nel biennio '12-'13 che testimoniano il progressivo "stemperamento" delle sue ritrosie e diffidenze (che non saranno mai del tutto eliminate). Dapprima Verga – nella lettera del 17 gennaio 1912 - mette a disposizione della compagna le novelle, i drammi ed i romanzi che le servono, a suo totale beneficio economico, rifiutandosi però di sceneggiarle, non reputandosi adatto, e lasciando che sia lei a provarci insieme agli sceneggiatori «che sanno come va preso il loro pubblico». Il 20 febbraio in un'altra lettera si informa sull'attività di sceneggiatrice di Dina ed esprime dei giudizi rivelatori sul cinema dei suoi tempi: «il cinematografo oggi ha invaso talmente il campo e ha bisogno di soggetti o temi col quale abbruttire il pubblico e accecare la gente, che io spero Giannino ti abbia aiutato a collocare qualcuna delle nostre fiabe; anzi voglio sperare che tu sia occupata a sceneggiare il soggetto, o per meglio dire a indicare i punti di cui gli attori appositi devono giovarsi per illustrare il soggetto colle loro smanie e i loro salti mortali. Basta il punto è che paghino».
A quanto pare però in quel periodo Dina ha qualche difficoltà a sceneggiare i soggetti verghiani, e dunque chiede aiuto al compagno che perlomeno le invii degli "schemi". Nelle lettere del 23 marzo e 6 aprile del medesimo anno Verga sembra disposto a fare quest'altro passo, pregando però Dina «di non dire che sia stato io a farlo, per un riserbo d'autore che voi comprenderete certo» (23 marzo). Ma quanto al lavoro di sceneggiatura vero e proprio non ne vuol sapere, non soltanto perchè incapace di adattare il suo stile raffinato alla semplicità e grossolanità della tecnica cinematografica dei suoi tempi («ingrossamento fotografico» lo definisce) ma anche per coerenza con la sua dignità di artista: «Figuratevi le mie viscere paterne, ed anche un poco il mio amor proprio d'autore, se volete, per me è questione di probità letteraria quasi. Non posso.» (6 aprile). Ma Dina insiste e cerca di affidare il lavoro di sceneggiatore al nipote, forse anche per approfittare del fatto che porta lo stesso nome dello scrittore. Dopo qualche settimana infatti Verga in tono tra il rassegnato e l'esasperato, cede: «Farò il lavoro che vorreste affidato a mio nipote. Ma credete che potrebbe cavarsene lui se io stesso mi ci sento a disagio? Ma vi prego e vi scongiuro di non dir mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle mie cose» (25 aprile).
Nel settembre del medesimo anno 1912, l'Itala Film di Torino offre a Dina di lavorare alla riduzione cinematografica di Tigre Reale in cambio di 600 lire. Verga la invita ad accettare prontamente l'offerta sperando di poter piazzare anche la sceneggiatura di «Storia di una capinera» alla quale Dina – o "chi per lei" - ha già messo mano. Quest'ultima sceneggiatura però viene completata da Verga solo nel maggio del 1913 e spedita alla Sordevolo il 15 dello stesso mese accompagnandola con la solita preghiera: «non voglio confessarmi autore di simili contraffazioni artistiche, buone soltanto a cavarne qualche utile, se potesse a voi servire. Fatemi dunque il gran favore di tenermi il segreto, e di ricopiare, quando ne avrete il tempo, il manoscritto, che darete come cosa vostra, per cui è stata fatta difatti, cara amica mia. I miei sgorbii poi me li rimanderete, che su quella traccia voglio scrivere un lavoruccio teatrale, se mi riesce, prosa o musica che sia». Poco più di un mese dopo, il 17 giugno, lo scrittore catanese le fa pervenire anche la sceneggiatura di «Caccia al lupo» (sempre con le allegate raccomandazioni), ma sempre nello stesso mese di giugno in una lettera datata giorno 28, le preannunzia, forse con un pizzico di entusiasmo artistico in più, la sua intenzione di lavorare anche a un "bozzetto" del suo lavoro teatrale «Caccia alla volpe», «che se mi riesce farà il buon paio con la Caccia al lupo». Sembra di intuire che Verga proprio a metà del 1913 cominci quasi a prenderci gusto nel trasformare le sue opere in sceneggiature.
Ma il solito ironico destino del grande scrittore, quello cioè di essere smentito dai fatti ogni volta che crede in un'opera – letteraria, teatrale, o come in questo caso cinematografica - comincia anche stavolta a mettergli i bastoni tra le ruote. All'inizio di luglio (cioè pochi giorni dopo la lettera del 28 giugno) la censura dell'allora governo Giolitti pone il veto sulla sceneggiatura di «Storia di una capinera» in precedenza giudicata da Verga stesso «innocente e bambinesca», suscitando sorpresa e sarcastici commenti contro la censura medesima da parte dello scrittore. Anche tutti i successivi e promettenti contatti dell'inizio del 1914 si risolveranno in un nulla di fatto. In quel periodo sia la Morgana Film di Martoglio, sia – a quanto sembra da una lettera di Capuana del 7 marzo 1914 – la Etna Film, due neocostituite società cinematografiche, lo invitano infatti a collaborare, ma ambedue le opportunità poi sfumano anche per la breve vita delle due case di produzione. Nemmeno l'intenzione di Verga di riscattare dalla società parigina Acad i diritti illimitati sulla «Cavalleria rusticana» - ceduti come si ricorderà nel 1909 – vanno in porto, nonostante l'interessamento di Federico De Roberto, a causa delle difficoltà poste dallo scoppio della prima guerra mondiale.
Poi però all'inizio del 1916 per il Verga "cineasta" tutti i nodi cominciano a sciogliersi. A metà febbraio, del '16 appunto, esce il film «Tigre reale» dell'Itala Film, per la regia di Piero Fosco (pseudonimo in realtà di Giovanni Pastrone, il famoso regista del kolossal Cabiria) con la bella e passionale attrice Pina Menichelli nei panni della contessa Natka, impietosamente "sforbiciata" dalla censura di Stato. Come nell'omonimo romanzo di Verga, il film tratta dell'amore tra il diplomatico Giorgio La Ferlita e la contessa russa Natka, che nella prima parte della pellicola racconta al giovane la sua odissea nella Siberia zarista, per ricongiungersi al suo precedente amante Dolski, poi morto suicida per amore suo. Il film poi si conclude con l'incendio dell'albergo dove Natka e Giorgio si sono dati appuntamento, e dove vengono scoperti proprio in quell'occasione dal marito di lei, il quale pazzo di gelosia li chiude a chiave nella loro camera per farli morire tra le fiamme. Ma i due amanti riescono a salvarsi, mentre è il perfido marito della bella russa che muore abbrustolito.
Sempre all'inizio del 1916 Verga riesce finalmente a riscattare dall'ente francese Acad i diritti di «Cavalleria rusticana» per cederli subito ad Ugo Falena (della Tespi Film di Roma) il quale viene a Catania a girare gli esterni del nuovo film. Verga, sempre diffidente, questa volta vuole essere presente sul set, per accertarsi che la "sua" «Cavalleria riesca» come si deve. Contemporaneamente però la Flegrea Film di Roma gira un'altra Cavalleria per la regia di Ubaldo Maria del Colle e autorizzata da Mascagni e Sonzogno, e nello stesso tempo diffida pubblicamente l'esecuzione della musica dell'omonima opera lirica durante la proiezione di altre versioni cinematografiche (compresa quindi quella di Verga-Falena). In breve, tra diffide e controdiffide si riapre anche in campo cinematografico la controversia giudiziaria tra Verga e Mascagni che a livello teatrale si era risolta nel 1893 con la vittoria di Verga (questa volta la vertenza si trascinerà fino addirittura al 1977, con i rispettivi eredi).
Nel medesimo anno 1916, in aprile, però avviene anche un'altra importante svolta nell'attività cinematografica di Verga: accetta di diventare socio di una società cinematografica di Milano, la Silentium Film diretta dal Conte Luigi Grabinski Broglio, e che vede la partecipazione anche di altri scrittori famosi. La medesima casa di produzione acquisisce da Verga tre soggetti: «Eva», «Caccia al lupo» e «Storia di una capinera». In appena quattro anni il grande scrittore catanese passa praticamente dall'aperta ostilità al cinema all'ufficiale partecipazione ad una società cinematografica. Se il lato economico ha certamente la sua importanza in tale percorso, tuttavia forse pesa anche la segreta speranza dello scrittore che anche le sue opere minori, che rischiano di cadere nell'oblio, possano ricevere "risveglio" e popolarità proprio tramite il cinema, così come accaduto per la versione teatrale di «Cavalleria Rusticana» il cui successo, già a suo tempo accresciuto dall'opera di Mascagni, aveva ottenuto maggiore ampiezza dalla versione cinematografica francese del 1910. Significativo in tal senso sembra ad esempio l'estrema cura che Verga pose nella sceneggiatura di «Caccia al lupo» sulla quale lavorò per parecchi mesi, quasi forse a cercare di riparare l'insuccesso avuto a suo tempo dalla versione teatrale.
Nonostante la nutrita presenza di scrittori e l'alto livello culturale, i rapporti tra Verga e la Silentium Film non sempre furono idilliaci nei quattro anni di collaborazione con essa (finchè cioè la società non venne sciolta nel 1920). In primo luogo perchè non voleva compromettere più di tanto nè il suo nome nè la sua immagine. Il 9 febbraio del 1917, ad esempio, Verga invia alla Silentium, come richiestogli, un sunto del soggetto di «Caccia al lupo» di questo tenore: «per cacciare il lupo, sulla montagna, i pastori di solito preparano una buca cieca, nascosta dagli sterpi, e vi legano un'agnelletta onde attrarre la mala bestia; la quale accorre al richiamo, e cade nel trabocchetto insieme alla vittima; ma non la tocca neppure, dopo, quasi presago della sorte che l'attende, e fa sforzi disperati per uscirne. Così una notte di vento e di pioggia – vero tempo da lupi – Lollo e Musarra colgono in trappola Bellamà, ch'è proprio il lupo pei mariti, da quelle parti, e gli ha preso la donna, a tutti e due». Dovendo tuttavia servire per la promozione del film sulle riviste e non essendo tale trama giudicata soddisfacente, il 6 marzo del 1917 il direttore artistico Marco Praga gli spedisce un altro testo - dal tono evidentemente troppo "reclamizzante" - perchè lo approvi, ma Verga reagisce indignato non approvando nè il testo nè l'idea di coinvolgerlo a quel modo nella pubblicità del film, come un "banditore" di paese («la cinematografia avrà le sue esigenze, come tu dici, ma io ho pure quella della mia coscienza artistica, e della mia ripugnanza a battere il tamburone in qualunque modo e sotto qualsiasi forma» - 9 marzo 1917). Ma si indigna anche quando, una volta uscito il film, viene a sapere che in una copia distribuita c'è proprio all'inizio una sua immagine (forse una semplice dimenticanza del regista Giuseppe Sterni), quasi come una copertina pubblicitaria.
Il suo temperamento acceso fu costretto a fare i conti tra l'altro anche con gli ostacoli della censura che giudicarono ad esempio il medesimo «Caccia al lupo» troppo drammatico specie nella conclusione. Verga allora assunse un atteggiamento ironico e stravolse con molta disinvoltura il finale, mutandolo da tragico addirittura in comico. Per interessamento però del medesimo direttore della Silentium, il conte Broglio, la censura alla fine, il 1 dicembre 1917, diede il suo visto al film con il suo corretto finale (solo leggermente "ammorbidito"), insieme all'altro film a cui aveva posto ostacoli, la «Storia di una capinera». Nel 1918 uscì un altro film verghiano, «Una peccatrice» (storia dell'alterno e volubile amore di Pietro Brusio per la contessa Narcisa, che alla fine sentendosi abbandonata si avvelena) ma prodotto da un'altra società, la Polifilm di Napoli, in quanto in base ad accordi, mai sufficientemente chiariti per la verità, tra Verga e la Silentium di Milano, lo scrittore catanese era libero di cedere ad altre società i soggetti non accettati dalla Casa di cui era socio (cosa che comunque non mancò di produrre ulteriori dissapori). In ogni caso nel 1919 uscì anche il terzo film verghiano prodotto dalla Silentium, «Eva» (storia, anche questa, ma con ruoli rovesciati, del volubile amore di Eva, ballerina "ammaliatrice" per il pittore Enrico Lanti, che alla fine va a morire povero e malato nel suo paesello natale) per la regia di Ivo Illuminati.
Tutti questi film vennero accolti dalla critica del tempo in maniera alterna: se «Caccia al lupo» venne osannato da Giulio Amedeo Vari sulla rivista «La Cine-fono» (10 marzo 1918), «Una peccatrice» venne giudicato male non solo dal punto di vista della qualità cinematografica, ma anche per la sceneggiatura e per lo stesso soggetto («Il romanzo non vale molto, ma la cinematografia addirittura niente» - C. Zappia, in «Cronache dell'attualità cinematografica», 30 gennaio 1919). Ma lì dove la critica si scagliò fu soprattutto contro la «Storia di una capinera». Il racconto della povera Maria, amata dal giovane Nino e obbligata dalla matrigna ad entrare in convento per lasciare campo libero in amore alla sorellastra, non piacque affatto, nemmeno come soggetto e sceneggiatura – che erano di Verga medesimo – alla critica dell'epoca. «C'è una stupidaggine colossale: la protagonista si fa monaca e siccome, dopo la vestizione, impazzisce, le altre monache la cacciano, mediante un congegno di usci misteriosi, in una cella dove c'è un'altra pazza furente; così fanno gli accalappiacani quando ghermiscono un cane randagio e lo gettano sul carretto ricolmo di cani, magari arrabbiati. Sarà permesso di trattare in simil modo le bestie, non già le persone; gettare tra i piedi di una pazza un'altra pazza sarebbe, nella vita, un delitto raccapricciante ed è, in cinematografia, una stupidaggine. A parte ciò, lo scenario è così mal fatto e peggio inscenato che non meriterebbe la pena nemmeno di parlarne. Per quattro lunghi atti non si vedono che facce torve e doloranti; mai un sorriso nè un lampo di buon umore. È un funerale da capo a fondo. La più funerea è la protagonista, Linda Pini. La sua bellezza è qui completamente sacrificata. Sono funerari anche gli altri interpreti, ma almeno quelli sono brutti. Anche la fotografia ha lo stesso carattere. Insomma, un lavoro mancato: uno sbaglio.» (Tito Alacci in: Film, 10-4-1918). Possiamo immaginare l'umore del povero Verga di fronte a tali critiche (poichè certamente ne venne a conoscenza), e come il suo pessimismo acuito dalla vecchiaia ne venisse oltremodo alimentato, tanto da prendersela nell'aprile del 1919 persino con l'epidemia influenzale "spagnola" che non voleva portarselo via!
Quasi come un'ironica e paradossale beffa del mondo del cinema, il 2 ottobre del 1920 la «Società Autori Cinematografici» fondata da poco a Genova lo invitò ad aderire, salutandolo come «uno degli autori cinematografici più universalmente noti e più unanimemente amati».
L'ultimo film che Verga vide uscire mentre era ancora in vita fu «Il marito di Elena» (1921), prodotto dalla Chimera Film di Roma per la regia di Riccardo Cassano. La trama è la classica crisi coniugale - che però finisce in tragedia - tra Cesare Dorello, marito spiantato, e la sua bella moglie Elena, che si lascia corteggiare da altri uomini, ricchi e di successo. Allorchè la donna grida in faccia al marito tutto il suo disprezzo, quest'ultimo, impazzito, la uccide pugnalandola.
Oltre a qualche copia superstite dei film girati in quell'ultima stagione della sua vita, di Verga ci rimangono le seguenti sceneggiature: «Caccia al lupo», «Caccia alla volpe», «Storia di una capinera», «Storie e leggende» (tratte da «Storie del castello di Trezza») e, naturalmente, «Cavalleria rusticana».
Ma molto di più – forse anche al di là delle sue stesse intenzioni – fu ciò che lasciò in eredità al cinema medesimo. Dopo la parentesi dannunziana e retorica della cinematografia successiva, nel 1941 alcuni giovani cineasti – quali Visconti, Lizzani, Antonioni ed altri – ricercando un nuovo modello di cinema dichiararono esplicitamente di volersi ispirare a Verga, alla sua letteratura, al suo teatro ed anche a ciò che rimaneva del suo cinema, aprendo quindi la strada alla cinematografia neorealista. Tecnicamente ed anche artisticamente molto più evoluto del cinema muto, il neorealismo cinematografico forse sarebbe stato apprezzato molto di più dal grande artista catanese - se non altro in quanto dotato di sonoro - proprio perchè in realtà era proprio quel tipo di cinema che aveva anticipato con le sue dettagliate e rigorose sceneggiature teatrali. Non è escluso quindi che le versioni neorealiste di alcuni suoi celebri soggetti - anche se un po' rimaneggiati - come «La lupa» (1953) girato da Alberto Lattuada tra i sassi di Matera, e soprattutto il celebre film di Visconti, «La terra trema» del 1948 (tratto com'è noto da «I Malavoglia») avrebbero potuto anche condurlo ad amare il cinema.
Fonti di riferimento
Per la stesura di questo articolo sono stati consultati quasi esclusivamente due volumi – curati dai medesimi autori – ricchi di saggi ed informazioni sui rapporti di Verga col cinema:
Sebastiano Gesù, Nino Genovese: Verga e il cinema – Maimone editore, Catania, 1996.
Sebastiano Gesù, Nino Genovese: La Sicilia e il cinema – Maimone editore, Catania, 1993.
Di seguito si riportano alcuni saggi specifici, tra quelli contenuti nei due volumi, di maggiore rilevanza per il presente articolo.
Gesù, S., Genovese, N. - Cinema e letterati siciliani – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) La Sicilia e il cinema – op. cit.
Genovese, N. - Gesù, S. - Verga e il cinema: «Castigo di Dio» o «San Cinematografo» - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema - op. cit. (ripercorre, tra l'altro, tutto il percorso "cinematografico" di Verga, dal 1909 fino alla sua eredità nel cinema italiano. In merito a quest'ultima vale la pena riportare quanto scritto su la rivista «Cinema» nel 1941 da parte dei giovani registi propugnatori di un nuovo cinema: «I lettori più intelligenti avranno a questo punto capito, che il nostro discorso, sbocca necessariamente, come primo suggerimento, ad un nome: quello di Giovanni Verga. Giovanni Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società: a noi che crediamo nell'arte specialmente in quanto creatrice di verità, la Sicilia omerica e leggendaria dei Malavoglia, di Mastro don Gesualdo, dell'Amante di Gramigna, di Jeli il pastore, ci sembra nello stesso tempo di offrire l'ambiente più solido e umano, più miracolosamente vergine e vero, che possa ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti in un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese. A chi va a caccia di falsità, di retorica, di medaglie di pessimo conio, dietro gli esempi di altre produzioni cinematografiche cui la perfezione tecnica non salva dalla miseria umana e dalle povertà di ragioni alle quali esse fanno appello, i racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un'arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera». Alicata, M. - De Santis G., Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in : Cinema, n. 127, 10 ottobre 1941 citato nel medesimo articolo, p. 17).
Fava Guzzetta, L. - Le immagini "cinematografiche" nella scrittura iconica verghiana - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Genovese, N. - Per una storia di Cavalleria rusticana: dalla novella ai film - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit. (riporta informazioni sull'attore catanese Giovanni Grasso e sulle sue interpretazioni della Cavalleria).
Comuzio, E. - Cavalleria rusticana tra novella, film, teatro e musica – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Longo, G. - La Cavalleria rusticana del 1910 – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Zappulla Muscarà, S. - Giovanni Verga soggettista cinematografico – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema – op. cit.
Tagliabue, C. - Letteratura, cinema e industria nel periodo del muto – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) - Verga e il cinema – op. cit.
Riccardi, C. - «Gli artisti parlano ?» La versione "muta« di Caccia alla volpe. - in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit. (sottolinea, tra l'altro, le difficoltà di Verga di adattare le sue opere al cinema "muto").
Bufalino, G. - Per Giovanni Verga – in: (a cura di Gesù, S. - Genovese, N.) Verga e il cinema – op. cit.
Nicastro, G. - Teatro e società in Sicilia (1860-1918) – Bulzoni, Roma, 1978 (cfr. il capitolo II per le polemiche della critica del tempo nei confronti di Verga autore teatrale).
(Si ringrazia per l'articolo Ignazio Burgio, di CataniaCultura.com)
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