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Raccontare in bianco e nero: Giovanni Verga fotogrago e il suo stile verista
Nel 1966 nell'abitazione catanese di Giovanni Verga, in Via S. Anna 8, al centro
di Catania, furono ritrovati ben 448 negativi fotografici - 327 lastre in vetro
e 121 fotogrammi in celluloide - impressi dallo scrittore a partire dal 1878.
I negativi, restaurati e sviluppati dal medesimo scopritore, il prof. Giovanni
Garra Agosta in collaborazione con la società 3M, ritraggono in parte parenti,
domestici, amici, molti dei quali esponenti culturali del suo tempo, quali Luigi
Capuana, Federico De Roberto, Eleonora Duse, gli editori Emilio e Giuseppe Treves,
e molti altri. Molti di essi tuttavia raffigurano anche paesaggi, scorci di case
anche umili, e le vie di paesi come Vizzini, Scordia e Licodia Eubea completamente
svuotate di gente, forse al lavoro nei campi, che rimandano a quel senso di mondo
fermo e immutabile che si respira nei racconti verghiani. Ma ritraggono anche
l'ambiente rurale delle sue proprietà fondiarie, con i suoi uomini di fiducia
ed i suoi braccianti, dalla figura umile e col volto ruvido, segnato dal sole e
dalla fatica. Emergono insomma da queste foto non solo quegli scenari naturali e
domestici, ma anche quegli uomini e quelle donne che dovettero certamente servire
da modelli ideali, perlomeno in alcuni loro tratti, per le sue opere letterarie
appartenenti alla fase verista, dalla raccolta di novelle «Vita dei campi»,
pubblicata nel 1880 - due anni dopo l'inizio ufficiale della sua attività
di fotografo - ai romanzi «I Malavoglia» e «Mastro don Gesualdo».
In quegli anni la fotografia era diventata una specie di moda d'elite presso nobili, intellettuali e persone facoltose. Anche gli altri scrittori veristi ed amici del Verga erano appassionati di fotografia, tanto che fu lo stesso Capuana ad insegnare all'amico di Catania il procedimento di sviluppo dei negativi. Anche per questo motivo l'attività fotografica dello scrittore verista è stata considerata dalla critica come un semplice passatempo, un'adesione alla moda dell'epoca, senza alcuna influenza sulla sua produzione letteraria.
Tuttavia se è vero che la sua adesione ai principi guida della filosofia verista - la descrizione scientifica dell'ambiente naturale e umano, l'estrema obiettività della narrazione, il distacco emotivo ed etico da parte dell'autore - venne maturando soprattutto dall'esempio della letteratura naturalista europea, in particolare, com'è noto, quella del francese Emile Zola, d'altra parte sembra proprio esagerato affermare che un mezzo di comunicazione di massa e di rappresentazione artistica come la fotografia non abbia avuto alcuna relazione con la sua letteratura.
In primo luogo Verga vide la luce appena un anno dopo (1840) la nascita ufficiale della fotografia in Francia, nell'agosto del 1839. Come gli altri suoi amici e scrittori veristi apparteneva dunque a quella generazione che vide crescere e progredire intorno a sè quella nuova tecnologia. Già all'età di 9 anni vide lo zio paterno, Salvatore Verga Catalano, scattare fotografie con una delle prime macchine a cassetta acquistata nel 1849, e della quale si servì poi lui stesso per le sue prime prove. Molti altri esempi della nuova tecnologia li vide poi nelle città dove ancor giovane si trasferì - prima Firenze, poi dal 1872 Milano -, e persino tra le mani del suo fraterno amico Capuana, il quale sin dal 1863 aveva preso a fotografare e a sviluppare personalmente i negativi.
Tutti quei primi ritratti fotografici color seppia di gentiluomini e nobildonne che doveva ammirare nei salotti che frequentava, non potevano non rimandargli suggestioni e riflessioni circa la rappresentazione del "vero", specie se confrontava quelle rudimentali fotografie con i dipinti degli antenati di famiglia. Un concetto importante sicuramente dovette farsi strada in maniera sempre più chiara nella sua mente, così come anche presso tutti gli altri componenti della sua generazione anche se in maniera più inconscia e larvata: la realtà poteva essere riprodotta anche senza la mediazione dell'artista, il quale finiva immancabilmente per distorcerla come nei dipinti artificiosi e di maniera. La sua scelta di una forma letteraria più fedele alla realtà dovette quindi procedere di pari passo con la decisione di darsi anche lui alla fotografia, perlomeno già nel 1878, due anni prima di pubblicare la sua prima raccolta di novelle scritte in forma verista. Ambedue queste scelte erano figlie oltre che dell'adesione ai nuovi principi naturalistici francesi, anche dell'ammirazione verso la nuova tecnologia. Ogni volta, infatti, che nel panorama storico di una data epoca entra in scena un nuovo media, una tecnologia cioè legata alle comunicazioni di massa, anche la lingua, le forme stilistiche e le espressioni artistiche vengono sollecitate a cambiare e ad assumere nuovi caratteri e nuove qualità. Era stato così nel caso della carta e della stampa nel Medioevo; dopo la fotografia lo sarebbe stato anche nel caso del cinema, della radio, della televisione, e via dicendo.
Nonostante il gran numero di negativi rinvenuti, tuttavia buona parte della produzione
fotografica dello scrittore catanese deve essere andata perduta. I negativi, infatti,
sono stati ritrovati con molte note aggiuntive nelle quali Verga stesso annotava
soggetti, luoghi e date. Di qualche arco di anni non si hanno dunque fotografie,
ed allo stesso modo mancano totalmente negativi di alcuni scenari fondamentali
delle sue opere, per esempio il paese di Acitrezza, sfondo com'è noto, del
romanzo «I Malavoglia». Questo è stato un altro dei motivi che
ha alimentato presso gli studiosi la convinzione della totale estraneità
della sua passione fotografica nei confronti della sua attività di scrittore.
C'è da precisare comunque che Verga - soprattutto nei primi tempi della sua attività di fotografo - si affidò ad altri più esperti di lui, in particolare all'amico Capuana, per la realizzazione di fotografie che riprendessero ambienti e personaggi rurali. In una lettera del 26 dicembre 1881 Verga chiede a Capuana: «Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita». Difficile escludere comunque che da quelle foto, come da altre precedenti e successive, lo scrittore catanese non sia rimasto suggestionato sempre più - in maniera probabilmente inconsapevole - a percepire il suo mondo narrativo con la lente del suo obiettivo fotografico, uno strumento di indagine sociale equivalente ad altri strumenti scientifici dotati di lenti: «ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? Voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà» (da «Fantasticheria»).
Una traccia significativa di questa sua originale percezione Verga ce la lascia in alcuni tratti caratteristici del suo stile verista. In primo luogo è estremamente parsimonioso con i colori anche lì dove paesaggio e ambiente vengono descritti più dettagliatamente. Nella novella «Cavalleria rusticana», ad esempio, non ricorre nessun altro colore oltre al bianco e nero, all'infuori del rosso che viene citato solo quattro volte, quasi sempre nel significato di "arrossire". Gli altri racconti che compongono le raccolte «Vita dei campi» e «Novelle rusticane» seguono più o meno questa stessa regola, facendo talvolta filtrare qua e là - ma molto sporadicamente - anche la citazione di un azzurro, di un verde e di qualche altro colore. Anche lì dove Verga indugia a dipingere paesaggi rurali, sembra fare a meno di ogni tipo di tonalità cromatica. Nella parte iniziale della famosa novella «La roba» dov'è descritta in maniera pittoresca la Piana di Catania vengono nominati una volta sola il verde ed il rosso: sono le uniche due occasioni in tutta la novella, che per il resto non conosce altri colori se non quelli "chiaroscuri" (bianchi, neri, grigi, e via dicendo). Il caso limite tuttavia pare costituito da «I Malavoglia», ambientato ad Acitrezza, in uno scenario cioè dominato dal mare, dove il termine "azzurro" ricorre in tutto il romanzo una volta sola, all'interno di un modo di dire: «ma la ragazza cantava come uno stornello, perchè aveva diciotto anni, e a quell'età se il cielo è azzurro vi ride negli occhi, e gli uccelli vi cantano nel cuore». Paradossalmente lo stesso colore ricorre un numero maggiore di volte (5) nell'opera Mastro don Gesualdo ambientata nell'entroterra rurale della Sicilia (per maggiori dettagli statistici sulla frequenza dei nomi di colori si rimanda alle osservazioni in fondo all'articolo).
Normalmente dunque nelle opere veriste di Verga, paesaggi, ambienti e personaggi vengono descritti facendo ricorso, proprio come nelle foto d'autore rigorosamente in bianco e nero, al sapiente gioco di luci ed ombre, del sole, della notte, dei fuochi, e via dicendo. Inoltre le trame dei racconti sembrano una sequenza di brevi scene neorealiste legate insieme dalla voce del narratore. All'interno di tali scene i personaggi per lo più umili risaltano come figure in chiaroscuro sullo sfondo di un paesaggio rurale e umano, grezzo e spesso ostile, ritratto fedelmente come nelle fotografie che ci ha lasciato. E proprio perchè la struttura di ogni racconto è immaginata come una sequenza di "istantanee", chi "ritrae", cioè lo scrittore, riesce a restarne più facilmente al di fuori, come dietro la sua macchina, al momento di aprire l'obiettivo sulla realtà.
Pare proprio insomma che la fotografia dovesse costituire per il Verga - ne fosse cosciente o meno - un modello ideale a cui ispirare lo stile dei propri racconti: ma ovviamente solo un modello. Lo scrittore catanese non andava di certo a scattare fotografie di gente e paesi con il preciso intento di studiare i positivi sviluppati e scriverci una novella o un romanzo. Tuttavia al pari degli altri suoi amici veristi era nato insieme alla fotografia, l'aveva vista progredire ed aveva imparato ad usarla: dunque la sua visione del mondo e degli uomini doveva per forza risentire della suggestione della camera oscura fino a suggerirgli di scegliere uno stile narrativo che "fotografasse" la realtà con le parole, in una forma appunto obiettiva, impersonale, e in "bianco e nero". Ai nostri giorni ad esempio la tecnologia delle videocamere a basso costo e con grandi capacità di memoria invoglia chi la usa a ritrarre qualunque aspetto della realtà, bello o brutto, banale o eccezionale. Può avvenire allora una trasformazione nella percezione della realtà - di uomini e cose - da emotivamente "immediata" come nel passato, ad una forma sempre più "mediata" da un diaframma ottico che riduce anche gli altri ad un puro e semplice spettacolo realistico anche se a volte drammatico - con la riduzione delle persone a semplici personaggi - da osservare "dall'esterno" con un atteggiamento spesso emotivamente distaccato. Allo stesso modo, nella seconda metà dell'Ottocento la fotografia, già abbastanza progredita e diffusa, suggeriva un modello di percezione del mondo in una forma sempre più impersonale, obiettiva e priva di qualsiasi coinvolgimento emotivo.
Verga doveva rendersi ben conto di questo nuovo atteggiamento poichè la sua prima fotografia in ordine cronologico che ci è rimasta consiste in un "autoscatto" del 1878 dove è in compagnia dei suoi parenti più stretti (la madre, la sorella, uno dei fratelli e la cognata). In questa fotografia lo scrittore è ancora "dentro" lo spettacolo della realtà cioè davanti all'obiettivo fotografico. Successivamente avrebbe accettato molto raramente di farsi fotografare, o di autoriprendersi, preferendo invece stare quasi sempre dietro la macchina, cioè "al di fuori" dello spettacolo della realtà, finendo certamente col comprendere ed approfondire sempre più quell'atteggiamento di "osservatore esterno", al di fuori dello "spettacolo del mondo" che intendeva trasferire in maniera sempre più precisa nella sua letteratura: «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere» (dall'introduzione de «I Malavoglia»).
Tuttavia si rendeva conto che ciò poteva anche non essere sufficiente, poichè così come le fotografie da sole non possono raccontare nessuna storia, anche "fotografare" la realtà tramite la voce di un narratore, per quanto distaccato e impersonale, può risultare ancora distante dalla migliore forma di realismo.
Questo aspetto diviene molto più palese allorchè dal 1884, con la prima
rappresentazione a Torino di «Cavalleria rusticana», Verga inaugura
la sua produzione teatrale verista, e nel far ciò finisce per anticipare
in maniera geniale non solo quella che sarà l'evoluzione naturale dell'arte
fotografica, ma anche il suo stesso destino artistico (neanche a farlo apposta
gran parte dei negativi che acquistava per le sue fotografie erano prodotti dalla
Società Lumiere di Parigi!). Lo scrittore si rendeva conto che nella rappresentazione
teatrale mancava la voce narrante che collegava le singole scene, ma questo anzichè
un limite poteva costituire un vantaggio a tutto beneficio del principio verista,
poichè la storia si sarebbe svolta da sè, automaticamente e
spontaneamente, sviluppandosi dall'azione stessa dei personaggi. A condizione che
- e questo era fondamentale - i personaggi fossero diretti in maniera quanto più
dettagliata e rigorosa possibile e risaltassero in chiaroscuro sull'ambiente naturale
e sociale, anch'esso minuziosamente descritto. Ecco così che i copioni delle
sue opere teatrali sono pieni di didascalie atti a descrivere in tutti i loro
dettagli sia la scena, sia l'azione stessa dei personaggi, anche quelli non protagonisti:
«La piazzetta del villaggio, irregolare. In fondo a sinistra, il viale alberato
che conduce alla chiesuola, e il muro di un orto che chiude la piazzetta; a destra
una viottola, fra due siepi di fichidindia, che si perde nei campi. Al primo piano
a destra, la bettola della gnà Nunzia, colla frasca appesa all'uscio; un
panchettino con su delle ova, pane e verdura, in mostra; e, dall'altra parte
dell'uscio una panca addossata al muro. La bettola fa angolo con una stradicciuola
che immette nell'interno del villaggio. All'altra cantonata la caserma dei carabinieri,
a due piani, collo stemma sul portoncino. Più in là, sulla stessa
linea, lo stallatico dello zio Brasi, con un'ampia tettoia sul davanti. Al primo
piano, a sinistra, una terrazza con pergolato. Poscia una stradicciuola. Infine
la casetta della zia Filomena... Lo zio Brasi attraversa la scena dalla sinistra
con un fascio di fieno in capo, che va a deporre sotto la tettoia. Comare Camilla
sulla terrazza, ripiegando della biancheria di bucato. Donne lungo il viale per
andare in chiesa. Un contadino seduto sotto la tettoia, col mento fra le mani
canticchiando. Suona la messa. La zia Filomena esce dalla bettola della gnà
Nunzia, portando roba sotto il grembiale» (da «Cavalleria rusticana»,
scena I).
Inoltre alcuni mesi prima della rappresentazione, il 29 ottobre 1883, in una lettera all'amico Capuana, Verga lo prega di spedirgli «delle fotografie di contadini (e tu sai i personaggi principali), due donne giovani colla mantellina, una senza e vecchia, anche per vedere la pettinatura, e qualche tipo di carrettiere e contadino. Insomma dai un'occhiata alla novella e ti regoli. Se potessi anche mandarmi una fotografia d'interno di villaggio, strada o piazza, sarebbe il colmo del bene. Ai costumi segna in nota il colore e possibilmente la stoffa dei panni».
Tutto ciò ha il sapore di una sceneggiatura cinematografica ante litteram, realizzata ben prima dell'invenzione dei fratelli Lumiere. Questo poichè se è vero che le novelle ed i romanzi di Verga avevano in qualche modo il loro modello ideale nell'arte fotografica, ma finivano con l'evidenziarne i limiti - poichè le fotografie non possono narrare -, l'evoluzione tecnologica della fotografia, ovvero il cinema, avrebbe potuto sopperire a questa mancanza, eliminando per di più la voce del narratore, a tutto vantaggio di un maggiore verismo ed impersonalità della storia. Ma il cinema era ancora di là da venire e dunque l'unica soluzione che rimaneva al grande scrittore catanese era quella di affidarsi al teatro: un teatro però sorretto e guidato da una vera e propria sceneggiatura cinematografica pre-lumieristica, il solo mezzo artistico che avrebbe potuto garantire in qualche modo l'esatta riproduzione sulla scena, in maniera autentica, della storia, delle relazioni dei protagonisti, delle loro emozioni, e dell'ambiente in cui vivevano. Vista in questa chiave appare dunque logica la scelta di Verga di trasformare in lavori teatrali alcune sue novelle - oltre a «Cavalleria rusticana» anche, ad esempio, «La lupa» nel 1886 - in quanto tentativo di renderle "più vere" tramite un altro mezzo artistico in grado di "sostituire", ed in un certo senso di "anticipare", un mezzo tecnologico che ancora non c'era.
Dunque forse non è esagerato affermare che anno dopo anno il grande scrittore catanese avvertiva sempre di più, da un punto di vista letterario, come una sorta di "pre-lumieristica" esigenza - artistica e mediatica - di una sempre più vera rappresentazione della realtà, che verrà soddisfatta però solo con l'invenzione dei fratelli Lumiere. Del resto non fu il cinema, al momento della sua nascita, così "verista" da impressionare e gettare nel panico gli spettatori parigini?
Quasi come una logica evoluzione del suo destino artistico, nell'ultima parte della sua vita Verga finì per trascurare novelle, romanzi e drammi teatrali per abbandonarsi totalmente fra le braccia della "decima musa". Fino a qualche anno fa si pensava che la sua vena creativa si fosse esaurita, che fosse stato preso dalla stanchezza, o anche dall'amarezza per la polemica di certa critica nei suoi confronti, e avesse abbandonato ogni produzione letteraria. Si è invece scoperto da poco che curò le sceneggiature di alcune sue opere per la nascente industria cinematografica, ma senza firmarle col suo nome: aveva paura di ciò che poteva pensarne la critica malevola. È un aspetto di Verga questo che merita di essere approfondito meglio in un articolo a parte.
Osservazioni e fonti di riferimento
A prescindere da come vengano valutate le tesi contenute in queste pagine, ci è sembrato comunque opportuno richiamare l'attenzione su di un aspetto della vita di Giovanni Verga di cui si parla pochissimo, ovvero della sua attività di fotografo. Le conclusioni raggiunte infatti dalla critica già negli anni immediatamente successivi alla scoperta dei negativi (dopo il 1966), circa la totale estraneità dell'attività fotografica dello scrittore catanese sulla sua produzione letteraria, hanno avuto come effetto collaterale (sicuramente non voluto) quello di rimuovere il Verga fotografo dai manuali di letteratura, dai salotti culturali ed anche dalla memoria stessa dei suoi concittadini catanesi. Di seguito vengono riportati insieme alla bibliografia, i testi ed i siti internet dove vengono riprodotte le fotografie.
Garra Agosta, G. - Verga fotografo - Maimone Editore, Catania, 1991 (Sono riprodotte tutte le fotografie che è stato possibile restaurare e sviluppare a partire dal 1966). I brani delle due lettere a Capuana citate nel testo (quella del 1881 e l'altra del 1884) sono riprese dalla prefazione di Paolo Mario Sipala al medesimo volume. Si confronti anche l'introduzione - Ministoria di una scoperta - dello stesso autore del volume per le informazioni tecniche sul materiale fotografico).
Nemiz, A. - Capuana, Verga, De Roberto fotografi - Edikronos, Palermo, 1982.
Settimelli, W. - Giovanni Verga fotografo - Ed. Centro Informazioni 3M, 1970.
Nicastro, G. - Teatro e società in Sicilia (1860-1918) - Bulzoni, Roma, 1978.
www.liberliber.it - Contiene i testi scaricabili di tutte le opere di Verga. Su di un campione di esse è stata effettuata la ricerca lessicale sui nomi di colori di base tramite la funzione "trova" di cui è dotato ogni programma di videoscrittura. Per semplice curiosità si fa notare allora che nel romanzo «I Malavoglia» il blu è totalmente assente, l'azzurro ricorre una volta sola, il verde 16 volte, il giallo 21, ed il rosso 32 (ovviamente sia al singolare, plurale, maschile e femminile). Nel romanzo «Mastro don Gesualdo» la statistica è la seguente: blu = 0; azzurro = 5; verde = 19; giallo = 27; rosso = 44. Per la verità ne «I Malavoglia» Verga ha descritto almeno in sei occasioni il colore del mare di Acitrezza, due volte tramite l'aggettivo «turchino», ed altre quattro usando il colore verde. Si sottolinea inoltre che il verde, il giallo ed il rosso in ambedue le opere spesso vengono utilizzati nella descrizione di stati d'animo: «verde di bile», «giallo come un morto», «rosso di rabbia», e via dicendo. Così ad esempio ne «I Malavoglia» il colore giallo viene usato 19 volte su 21 nell'espressione «giallo come un cadavere» o simili; il colore rosso, 22 volte su 32 nel senso di «rosso in volto», etc. Ad ogni modo, dato il carattere divulgativo dell'articolo si lascia volentieri ad altri una ricerca più accurata ed esauriente.
(Si ringrazia per l'articolo Ignazio Burgio, di Catania Cultura)
In quegli anni la fotografia era diventata una specie di moda d'elite presso nobili, intellettuali e persone facoltose. Anche gli altri scrittori veristi ed amici del Verga erano appassionati di fotografia, tanto che fu lo stesso Capuana ad insegnare all'amico di Catania il procedimento di sviluppo dei negativi. Anche per questo motivo l'attività fotografica dello scrittore verista è stata considerata dalla critica come un semplice passatempo, un'adesione alla moda dell'epoca, senza alcuna influenza sulla sua produzione letteraria.
Tuttavia se è vero che la sua adesione ai principi guida della filosofia verista - la descrizione scientifica dell'ambiente naturale e umano, l'estrema obiettività della narrazione, il distacco emotivo ed etico da parte dell'autore - venne maturando soprattutto dall'esempio della letteratura naturalista europea, in particolare, com'è noto, quella del francese Emile Zola, d'altra parte sembra proprio esagerato affermare che un mezzo di comunicazione di massa e di rappresentazione artistica come la fotografia non abbia avuto alcuna relazione con la sua letteratura.
In primo luogo Verga vide la luce appena un anno dopo (1840) la nascita ufficiale della fotografia in Francia, nell'agosto del 1839. Come gli altri suoi amici e scrittori veristi apparteneva dunque a quella generazione che vide crescere e progredire intorno a sè quella nuova tecnologia. Già all'età di 9 anni vide lo zio paterno, Salvatore Verga Catalano, scattare fotografie con una delle prime macchine a cassetta acquistata nel 1849, e della quale si servì poi lui stesso per le sue prime prove. Molti altri esempi della nuova tecnologia li vide poi nelle città dove ancor giovane si trasferì - prima Firenze, poi dal 1872 Milano -, e persino tra le mani del suo fraterno amico Capuana, il quale sin dal 1863 aveva preso a fotografare e a sviluppare personalmente i negativi.
Tutti quei primi ritratti fotografici color seppia di gentiluomini e nobildonne che doveva ammirare nei salotti che frequentava, non potevano non rimandargli suggestioni e riflessioni circa la rappresentazione del "vero", specie se confrontava quelle rudimentali fotografie con i dipinti degli antenati di famiglia. Un concetto importante sicuramente dovette farsi strada in maniera sempre più chiara nella sua mente, così come anche presso tutti gli altri componenti della sua generazione anche se in maniera più inconscia e larvata: la realtà poteva essere riprodotta anche senza la mediazione dell'artista, il quale finiva immancabilmente per distorcerla come nei dipinti artificiosi e di maniera. La sua scelta di una forma letteraria più fedele alla realtà dovette quindi procedere di pari passo con la decisione di darsi anche lui alla fotografia, perlomeno già nel 1878, due anni prima di pubblicare la sua prima raccolta di novelle scritte in forma verista. Ambedue queste scelte erano figlie oltre che dell'adesione ai nuovi principi naturalistici francesi, anche dell'ammirazione verso la nuova tecnologia. Ogni volta, infatti, che nel panorama storico di una data epoca entra in scena un nuovo media, una tecnologia cioè legata alle comunicazioni di massa, anche la lingua, le forme stilistiche e le espressioni artistiche vengono sollecitate a cambiare e ad assumere nuovi caratteri e nuove qualità. Era stato così nel caso della carta e della stampa nel Medioevo; dopo la fotografia lo sarebbe stato anche nel caso del cinema, della radio, della televisione, e via dicendo.
C'è da precisare comunque che Verga - soprattutto nei primi tempi della sua attività di fotografo - si affidò ad altri più esperti di lui, in particolare all'amico Capuana, per la realizzazione di fotografie che riprendessero ambienti e personaggi rurali. In una lettera del 26 dicembre 1881 Verga chiede a Capuana: «Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita». Difficile escludere comunque che da quelle foto, come da altre precedenti e successive, lo scrittore catanese non sia rimasto suggestionato sempre più - in maniera probabilmente inconsapevole - a percepire il suo mondo narrativo con la lente del suo obiettivo fotografico, uno strumento di indagine sociale equivalente ad altri strumenti scientifici dotati di lenti: «ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? Voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà» (da «Fantasticheria»).
Una traccia significativa di questa sua originale percezione Verga ce la lascia in alcuni tratti caratteristici del suo stile verista. In primo luogo è estremamente parsimonioso con i colori anche lì dove paesaggio e ambiente vengono descritti più dettagliatamente. Nella novella «Cavalleria rusticana», ad esempio, non ricorre nessun altro colore oltre al bianco e nero, all'infuori del rosso che viene citato solo quattro volte, quasi sempre nel significato di "arrossire". Gli altri racconti che compongono le raccolte «Vita dei campi» e «Novelle rusticane» seguono più o meno questa stessa regola, facendo talvolta filtrare qua e là - ma molto sporadicamente - anche la citazione di un azzurro, di un verde e di qualche altro colore. Anche lì dove Verga indugia a dipingere paesaggi rurali, sembra fare a meno di ogni tipo di tonalità cromatica. Nella parte iniziale della famosa novella «La roba» dov'è descritta in maniera pittoresca la Piana di Catania vengono nominati una volta sola il verde ed il rosso: sono le uniche due occasioni in tutta la novella, che per il resto non conosce altri colori se non quelli "chiaroscuri" (bianchi, neri, grigi, e via dicendo). Il caso limite tuttavia pare costituito da «I Malavoglia», ambientato ad Acitrezza, in uno scenario cioè dominato dal mare, dove il termine "azzurro" ricorre in tutto il romanzo una volta sola, all'interno di un modo di dire: «ma la ragazza cantava come uno stornello, perchè aveva diciotto anni, e a quell'età se il cielo è azzurro vi ride negli occhi, e gli uccelli vi cantano nel cuore». Paradossalmente lo stesso colore ricorre un numero maggiore di volte (5) nell'opera Mastro don Gesualdo ambientata nell'entroterra rurale della Sicilia (per maggiori dettagli statistici sulla frequenza dei nomi di colori si rimanda alle osservazioni in fondo all'articolo).
Normalmente dunque nelle opere veriste di Verga, paesaggi, ambienti e personaggi vengono descritti facendo ricorso, proprio come nelle foto d'autore rigorosamente in bianco e nero, al sapiente gioco di luci ed ombre, del sole, della notte, dei fuochi, e via dicendo. Inoltre le trame dei racconti sembrano una sequenza di brevi scene neorealiste legate insieme dalla voce del narratore. All'interno di tali scene i personaggi per lo più umili risaltano come figure in chiaroscuro sullo sfondo di un paesaggio rurale e umano, grezzo e spesso ostile, ritratto fedelmente come nelle fotografie che ci ha lasciato. E proprio perchè la struttura di ogni racconto è immaginata come una sequenza di "istantanee", chi "ritrae", cioè lo scrittore, riesce a restarne più facilmente al di fuori, come dietro la sua macchina, al momento di aprire l'obiettivo sulla realtà.
Pare proprio insomma che la fotografia dovesse costituire per il Verga - ne fosse cosciente o meno - un modello ideale a cui ispirare lo stile dei propri racconti: ma ovviamente solo un modello. Lo scrittore catanese non andava di certo a scattare fotografie di gente e paesi con il preciso intento di studiare i positivi sviluppati e scriverci una novella o un romanzo. Tuttavia al pari degli altri suoi amici veristi era nato insieme alla fotografia, l'aveva vista progredire ed aveva imparato ad usarla: dunque la sua visione del mondo e degli uomini doveva per forza risentire della suggestione della camera oscura fino a suggerirgli di scegliere uno stile narrativo che "fotografasse" la realtà con le parole, in una forma appunto obiettiva, impersonale, e in "bianco e nero". Ai nostri giorni ad esempio la tecnologia delle videocamere a basso costo e con grandi capacità di memoria invoglia chi la usa a ritrarre qualunque aspetto della realtà, bello o brutto, banale o eccezionale. Può avvenire allora una trasformazione nella percezione della realtà - di uomini e cose - da emotivamente "immediata" come nel passato, ad una forma sempre più "mediata" da un diaframma ottico che riduce anche gli altri ad un puro e semplice spettacolo realistico anche se a volte drammatico - con la riduzione delle persone a semplici personaggi - da osservare "dall'esterno" con un atteggiamento spesso emotivamente distaccato. Allo stesso modo, nella seconda metà dell'Ottocento la fotografia, già abbastanza progredita e diffusa, suggeriva un modello di percezione del mondo in una forma sempre più impersonale, obiettiva e priva di qualsiasi coinvolgimento emotivo.
Verga doveva rendersi ben conto di questo nuovo atteggiamento poichè la sua prima fotografia in ordine cronologico che ci è rimasta consiste in un "autoscatto" del 1878 dove è in compagnia dei suoi parenti più stretti (la madre, la sorella, uno dei fratelli e la cognata). In questa fotografia lo scrittore è ancora "dentro" lo spettacolo della realtà cioè davanti all'obiettivo fotografico. Successivamente avrebbe accettato molto raramente di farsi fotografare, o di autoriprendersi, preferendo invece stare quasi sempre dietro la macchina, cioè "al di fuori" dello spettacolo della realtà, finendo certamente col comprendere ed approfondire sempre più quell'atteggiamento di "osservatore esterno", al di fuori dello "spettacolo del mondo" che intendeva trasferire in maniera sempre più precisa nella sua letteratura: «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere» (dall'introduzione de «I Malavoglia»).
Tuttavia si rendeva conto che ciò poteva anche non essere sufficiente, poichè così come le fotografie da sole non possono raccontare nessuna storia, anche "fotografare" la realtà tramite la voce di un narratore, per quanto distaccato e impersonale, può risultare ancora distante dalla migliore forma di realismo.
Inoltre alcuni mesi prima della rappresentazione, il 29 ottobre 1883, in una lettera all'amico Capuana, Verga lo prega di spedirgli «delle fotografie di contadini (e tu sai i personaggi principali), due donne giovani colla mantellina, una senza e vecchia, anche per vedere la pettinatura, e qualche tipo di carrettiere e contadino. Insomma dai un'occhiata alla novella e ti regoli. Se potessi anche mandarmi una fotografia d'interno di villaggio, strada o piazza, sarebbe il colmo del bene. Ai costumi segna in nota il colore e possibilmente la stoffa dei panni».
Tutto ciò ha il sapore di una sceneggiatura cinematografica ante litteram, realizzata ben prima dell'invenzione dei fratelli Lumiere. Questo poichè se è vero che le novelle ed i romanzi di Verga avevano in qualche modo il loro modello ideale nell'arte fotografica, ma finivano con l'evidenziarne i limiti - poichè le fotografie non possono narrare -, l'evoluzione tecnologica della fotografia, ovvero il cinema, avrebbe potuto sopperire a questa mancanza, eliminando per di più la voce del narratore, a tutto vantaggio di un maggiore verismo ed impersonalità della storia. Ma il cinema era ancora di là da venire e dunque l'unica soluzione che rimaneva al grande scrittore catanese era quella di affidarsi al teatro: un teatro però sorretto e guidato da una vera e propria sceneggiatura cinematografica pre-lumieristica, il solo mezzo artistico che avrebbe potuto garantire in qualche modo l'esatta riproduzione sulla scena, in maniera autentica, della storia, delle relazioni dei protagonisti, delle loro emozioni, e dell'ambiente in cui vivevano. Vista in questa chiave appare dunque logica la scelta di Verga di trasformare in lavori teatrali alcune sue novelle - oltre a «Cavalleria rusticana» anche, ad esempio, «La lupa» nel 1886 - in quanto tentativo di renderle "più vere" tramite un altro mezzo artistico in grado di "sostituire", ed in un certo senso di "anticipare", un mezzo tecnologico che ancora non c'era.
Dunque forse non è esagerato affermare che anno dopo anno il grande scrittore catanese avvertiva sempre di più, da un punto di vista letterario, come una sorta di "pre-lumieristica" esigenza - artistica e mediatica - di una sempre più vera rappresentazione della realtà, che verrà soddisfatta però solo con l'invenzione dei fratelli Lumiere. Del resto non fu il cinema, al momento della sua nascita, così "verista" da impressionare e gettare nel panico gli spettatori parigini?
Quasi come una logica evoluzione del suo destino artistico, nell'ultima parte della sua vita Verga finì per trascurare novelle, romanzi e drammi teatrali per abbandonarsi totalmente fra le braccia della "decima musa". Fino a qualche anno fa si pensava che la sua vena creativa si fosse esaurita, che fosse stato preso dalla stanchezza, o anche dall'amarezza per la polemica di certa critica nei suoi confronti, e avesse abbandonato ogni produzione letteraria. Si è invece scoperto da poco che curò le sceneggiature di alcune sue opere per la nascente industria cinematografica, ma senza firmarle col suo nome: aveva paura di ciò che poteva pensarne la critica malevola. È un aspetto di Verga questo che merita di essere approfondito meglio in un articolo a parte.
Osservazioni e fonti di riferimento
A prescindere da come vengano valutate le tesi contenute in queste pagine, ci è sembrato comunque opportuno richiamare l'attenzione su di un aspetto della vita di Giovanni Verga di cui si parla pochissimo, ovvero della sua attività di fotografo. Le conclusioni raggiunte infatti dalla critica già negli anni immediatamente successivi alla scoperta dei negativi (dopo il 1966), circa la totale estraneità dell'attività fotografica dello scrittore catanese sulla sua produzione letteraria, hanno avuto come effetto collaterale (sicuramente non voluto) quello di rimuovere il Verga fotografo dai manuali di letteratura, dai salotti culturali ed anche dalla memoria stessa dei suoi concittadini catanesi. Di seguito vengono riportati insieme alla bibliografia, i testi ed i siti internet dove vengono riprodotte le fotografie.
Garra Agosta, G. - Verga fotografo - Maimone Editore, Catania, 1991 (Sono riprodotte tutte le fotografie che è stato possibile restaurare e sviluppare a partire dal 1966). I brani delle due lettere a Capuana citate nel testo (quella del 1881 e l'altra del 1884) sono riprese dalla prefazione di Paolo Mario Sipala al medesimo volume. Si confronti anche l'introduzione - Ministoria di una scoperta - dello stesso autore del volume per le informazioni tecniche sul materiale fotografico).
Nemiz, A. - Capuana, Verga, De Roberto fotografi - Edikronos, Palermo, 1982.
Settimelli, W. - Giovanni Verga fotografo - Ed. Centro Informazioni 3M, 1970.
Nicastro, G. - Teatro e società in Sicilia (1860-1918) - Bulzoni, Roma, 1978.
www.liberliber.it - Contiene i testi scaricabili di tutte le opere di Verga. Su di un campione di esse è stata effettuata la ricerca lessicale sui nomi di colori di base tramite la funzione "trova" di cui è dotato ogni programma di videoscrittura. Per semplice curiosità si fa notare allora che nel romanzo «I Malavoglia» il blu è totalmente assente, l'azzurro ricorre una volta sola, il verde 16 volte, il giallo 21, ed il rosso 32 (ovviamente sia al singolare, plurale, maschile e femminile). Nel romanzo «Mastro don Gesualdo» la statistica è la seguente: blu = 0; azzurro = 5; verde = 19; giallo = 27; rosso = 44. Per la verità ne «I Malavoglia» Verga ha descritto almeno in sei occasioni il colore del mare di Acitrezza, due volte tramite l'aggettivo «turchino», ed altre quattro usando il colore verde. Si sottolinea inoltre che il verde, il giallo ed il rosso in ambedue le opere spesso vengono utilizzati nella descrizione di stati d'animo: «verde di bile», «giallo come un morto», «rosso di rabbia», e via dicendo. Così ad esempio ne «I Malavoglia» il colore giallo viene usato 19 volte su 21 nell'espressione «giallo come un cadavere» o simili; il colore rosso, 22 volte su 32 nel senso di «rosso in volto», etc. Ad ogni modo, dato il carattere divulgativo dell'articolo si lascia volentieri ad altri una ricerca più accurata ed esauriente.
(Si ringrazia per l'articolo Ignazio Burgio, di Catania Cultura)
08/02/2007 | 27523 letture | 0 commenti
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