Economia
Dai Comuni una possibile lezione di democrazia e crescita
Al di là delle motivazioni e delle responsabilità che hanno generato la crisi
economica e sociale che stiamo attraversando, ciò che inquieta è il retrocedere
prolungato dei fondamentali dell'economia e la cronicizzazione dei problemi.
Disoccupazione, ristagno nella crescita del Pil, alta pressione fiscale, tagli
alla spesa pubblica, minore potere dello Stato, proteste senza mediazione politica,
fragile coesione sociale, vecchie e nuove povertà, sono elementi di valutazione
di un paese sfinito e che mettono a rischio la credibilità della politica e le
basi della democrazia.
Ma ciò che in questo contesto inquieta maggiormente è il cedimento del sistema di Welfare State, quel sistema che per decenni si è evoluto accanto alla crescita economica e alla democrazia e che ha rappresentato una grande conquista in termini di intervento pubblico nel settore sociale: dalla sanità al sistema scolastico, al sostegno alla disoccupazione, ai trasporti pubblici, all'edilizia popolare, al sistema pensionistico, alla cultura.
La disponibilità di risorse e la facilità di ottenere consensi con tale meccanismo di protezione sociale hanno dilatato la presenza pubblica e l'uso di risorse, rendendo possibile non solo il moltiplicarsi di inefficienze, sprechi e fenomeni di corruzione, ma, ancora più grave, hanno distolto dalla «responsabilità di programmare a lungo termine»: più flessibilità nel mercato del lavoro per sostenere la produttività, similmente a quanto hanno fatto altri paesi europei (Germania, Gran Bretagna, Paesi scandinavi); maggiori risorse destinate alla ricerca e alla formazione, due settori che avrebbero preparato ad affrontare la competizione internazionale; investimenti nel settore delle energie alternative per ridurre l'importazione di minerali energetici e tutelare l'ambiente; investimenti nel settore dei beni culturali per incrementare il turismo. In altri termini, si è trascurata la distribuzione della ricchezza tra le generazioni, costruendo un sistema di benessere sociale ma talmente fragile dal punto di vista dello «sviluppo» da rendere più problematico ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni fronteggiare la crisi che imperversa dal 2008.
Le necessarie, ma tardive, riforme strutturali che l'attuale governo sta mettendo in atto, pur rappresentando un tentativo di fare un passo avanti verso il superamento degli ostacoli alla ripresa economica, non sono sufficienti, almeno nel breve-medio periodo, per recuperare i "ritardi strutturali" e per affrontare con successo le criticità delle politiche sociali. La flessibilità del lavoro proposta come soluzione alla disoccupazione si presenta come un problema per i lavoratori non abituati a tale strumento, l'elargizione di bonus non è sufficiente per far ripartire i consumi e l'alta pressione fiscale non compensata dall'erogazione dei servizi diventa inaccettabile. Il tutto con alle spalle un debito pubblico che ha superato la soglia di tolleranza consentita e continui tagli alla spesa pubblica e ai trasferimenti di risorse agli enti locali, oltre lo spettro della deflazione.
Di fronte ai tanti problemi che si presentano irrisolvibili, alla scarsità delle risorse e ad una democrazia a rischio, il dibattito si divide tra pessimisti, che paventano il rischio di isteresi, e ottimisti, che confidano in un cambiamento, così come è avvenuto in altre epoche storiche, quando il cambiamento è stato accompagnato spesso dagli sviluppi della tecnologia. Non si può però non prendere atto che, a differenza delle crisi precedenti, il cui superamento presupponeva il raggiungimento del solo obiettivo economico, la crisi attuale è legata a numerose sfide, sia in ambito economico che sociale e ambientale, derivanti sia da problematiche interne che dal mutato scenario internazionale, che rendono difficoltoso il raggiungimento dei tre obiettivi in quanto l'uno è vincolo dell'altro. Intanto, una sfida è la stessa tecnologia che, a differenza dell'innovazione tecnologica del passato (macchine a vapore, meccanizzazione, elettrificazione, ecc), che dava l'opportunità di creare posti di lavoro, oggi la rivoluzione digitale, che riguarda l'innovazione nelle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni, tende a sostituire il fattore lavoro e viaggia ad una velocità tale da superare la capacità di gestione dei normali cicli economici. Soprattutto con l'introduzione di internet all'inizio degli anni Novanta, l'impatto della tecnologia è stato impetuoso nel favorire la globalizzazione e la competizione internazionale, che, con la trasformazione della produzione e del commercio di beni dei settori agricolo e industriale, specialmente del settore manifatturiero, ha configurato una nuova geografia economica, indebolendo le economie capitalistiche occidentali e facendo emergere nuovi attori nello scenario internazionale.
Le innumerevoli sfide rendono debole la capacità di azione degli Stati, basata ancora prevalentemente su un approccio dal lato dell'offerta e sull'uso dei tradizionali strumenti di intervento, che stanno risultando inadeguati di fronte a un ciclo economico anomalo: infatti, paradossalmente, un alto tasso di disoccupazione è accompagnato da un basso tasso di inflazione; di fronte ad una bassa inflazione la domanda di beni di consumo non aumenta, mentre aumenta il risparmio; e di fronte a tassi di interesse bassi non aumentano gli investimenti. Venendo meno la condizione di equilibrio economico keynesiana, cioè l'uguaglianza tra risparmi ed investimenti, l'inevitabile effetto è il blocco dell'attività produttiva, l'aumento della disoccupazione e l'aumento del rapporto debito pubblico/Pil.
La complessità delle sfide comincia comunque a mettere tutti d'accordo nel considerare che il modello socio-economico dominante e il sistema democratico presentano elementi di criticità non indifferenti che vanno ripensati e che ci troviamo in una fase lunga di transizione che, come tale, presenta difficoltà ad individuare le giuste priorità. Che fare in attesa che l'economia ritrovi le condizioni per ripartire verso un nuovo equilibrio, che non sarà certo a breve scadenza, e per evitare che in questo fragile spazio temporale si inneschino gravi conseguenze sia sociali che politiche? Da dove cominciare? Non si può sottovalutare che un ruolo importante per mettere in moto l'economia è svolto dagli investimenti, per cui non dovrebbe essere difficile comprendere che la strategia da seguire è quella di convogliare il risparmio, pubblico e privato (la cui propensione di quest'ultimo è tra le più alte tra i Paesi europei) negli investimenti che producono beni che assicurano un mercato di sbocco, interno ed estero, e servizi là dove la domanda è alta ed è in attesa di essere soddisfatta.
Da una necessaria rilettura della realtà ciò che emerge in tutta la sua drammaticità è il pesante disagio causato dal ridimensionamento della protezione sociale, ed è interessante notare che è nella società civile che si riscontra una maggiore consapevolezza dell'incapacità dello Stato Sociale di riportare la qualità della vita ai livelli pre-crisi, cioè in coloro che sulla propria pelle vivono gli effetti di questo prolungato periodo di recessione, che, pur non essendo economisti ma guidati da un istinto naturale che diventa razionale, hanno cominciato a fare di necessità virtù e rispolverato vecchie abitudini che erano scomparse, indicando l'orizzonte culturale verso cui si vuole tendere. Ne sono una dimostrazione i significativi cambiamenti negli stili di vita e nelle scelte dei consumatori, come la riduzione della propensione al consumo e degli sprechi, l'evolversi di fenomeni come il baratto, la sharing economy, la Banca del tempo, i consorzi per la vendita a chilometro zero, la riscoperta di mestieri antichi (dall'agricoltura alla ristorazione), la richiesta di lavoro e non di ammortizzatori sociali (che si comincia a considerarli strumenti-tampone da sostituire con il soddisfacimento della domanda di servizi). Così come si vanno moltiplicando iniziative di finanza sociale, di cooperative sociali, di servizi per l'infanzia e per gli anziani, di attività delle Fondazioni. Ci sembra comunque interessante sottolineare e porre al centro dell'attenzione che, nonostante il prolungarsi della crisi, crescono testimonianze di generosità e solidarietà, come l'aumento del volontariato, i Gruppi di acquisto solidali, le neonate pratiche del "sospeso", delle "ferie solidali" e delle Fondazioni di comunità.
Anche da parte delle imprese provengono segnali di solidarietà e di responsabilità sociale, come dimostra il sostegno dato ai dipendenti sotto forma di servizi, asili nido, buoni spese, etc. Ciò che è importante mettere in evidenza è che l'inclinazione al cambiamento che proviene dal basso, oltre a cominciare a raffigurare un modello socio-economico nuovo, mostra una velocità superiore rispetto a quella delle istituzioni. Dall'alto, infatti, si stenta a cogliere questi segnali di cambiamento e si stenta a comprendere che questa è la stagione dei grandi cambiamenti, sia economici che politici.
Dal punto di vista economico, una politica per la crescita del Pil e dell'occupazione attraverso l'aumento della domanda di beni di consumo che a sua volta dovrebbe stimolare gli investimenti - sebbene sia la ricetta keynesiana valida teoricamente, e lo è stata concretamente in passato - sta risultando una politica inefficace in un'economia matura e interdipendente - che ha il problema di eliminare gli sprechi del consumismo e affrontare la competizione internazionale - e in una società che sta vivendo un clima di sfiducia nelle istituzioni e di incertezza del futuro, che stimola invece all'aumento della propensione al risparmio per affrontare i rischi di una ridotta protezione sociale, oltre a dare vita a tensioni sociali e manifestazioni di insofferenza più o meno imprudenti. Anche le transazioni commerciali internazionali, tranne alcuni settori di nicchia, hanno subìto una flessione, a causa della globalità della crisi che riduce la domanda estera. Per cui consumi, investimenti privati ed esportazioni, le tre più importanti componenti della domanda aggregata che sostengono la crescita del Pil e dell'occupazione si trovano in uno stato di problematica insicurezza tale da non rispondere alle strategie di politica economica tradizionali, tanto più se messe in atto in assenza di una organica politica industriale e sociale.
Se si osservasse con più attenzione la realtà si noterebbe che l'unico settore in cui la domanda è superiore all'offerta, e quindi una domanda che non conosce flessione, anzi, è quella riguardante i servizi e le attività che si raggruppano nel settore sociale, settore che la politica per la crescita sta trascurando. Ogni economista, compreso il consigliere economico del governo, sa che il Pil aumenta se aumenta la domanda non solo di beni di consumo ma anche di servizi, e, in più, che gli investimenti nella produzione di servizi hanno effetti a breve. L'attuazione di una politica espansiva keynesiana deve tener conto dell'attuale carenza del sistema di protezione sociale, che suggerisce che è da questo settore che bisogna ripartire come strategia anticiclica, e la carenza di risorse finanziarie suggerisce che questo settore può catalizzare risorse e può trovare un equilibrio tra domanda (alta) e offerta (bassa) con il rafforzamento di tutte quelle realtà che sono attive nei settori a forte impatto sociale e con l'istituzionalizzazione delle attività del Terzo settore e con le energie che vi operano e che potenzialmente potrebbero dilatarlo. Del resto il compito dello Stato in un'economia in crisi è proprio quello di un maggiore intervento rivolto a ridurre le disuguaglianze sociali anche sotto i vincoli di bilancio, tenendo presente che, come sostiene l'economista Luigi Campiglio, tagliare il Welfare equivale a tagliare le radici su cui un albero cresce.
Il Terzo settore, riferendosi non ai settori di attività ma ai pilastri dell'economia, costituisce, insieme allo Stato e al Mercato, il terzo pilastro, che il vecchio paradigma economico ha trascurato e tenuto ai margini delle politiche sociali. Rappresentando tutte quelle attività che partono dalla società civile, il Terzo settore si configura oggi come la via privilegiata per "sbloccare il circolo vizioso", andando ad occupare - come ha sempre fatto ma in condizioni di marginalità e secondo la logica della filantropia - tutti gli spazi lasciati vuoti dallo Stato e dal Mercato. Concentrare pertanto l'attenzione sulle politiche espansive nel settore sociale e dare più spazio al Terzo settore avrebbe l'effetto di aumentare il Pil, l'occupazione e soddisfare la domanda di Welfare e, indirettamente, aumentare la domanda di consumi e di investimenti. Inoltre, di fronte alle situazioni esplosive provenienti dalle fasce più deboli della popolazione, l'effetto più importante da non trascurare sarebbe il mantenimento della coesione sociale.
Sebbene il Terzo settore in tutte le sue espressioni sia un ambito di studio complesso, spesso anche nella sua definizione, tuttavia, anche al di fuori di una collocazione teorica, si assiste al moltiplicarsi di studi che stanno alimentando un dibattito a livello scientifico, interessando vari settori disciplinari: economico, sociologico, antropologico, giuridico e aziendale. I diversi punti di vista concordano sulla necessità di una sua regolamentazione per essere un efficace antidoto alla crisi e sulla validità dell'innovazione sociale secondo un approccio di tipo bottom-up. Queste tesi sono avvalorate peraltro dalla constatazione che le attività del Terzo settore sono aumentate anche in piena crisi economica, come dimostrano i dati Istat e come dimostra la fiducia che il non profit ha riscosso in alcuni istituti bancari, che hanno dedicato molta attenzione alle esigenze del settore sociale in un'ottica solidale.
È chiaro che da solo il settore sociale non risolve i problemi della crescita, ma ha l'importante ruolo di orientare il cambiamento in atto verso un nuovo modello di sviluppo, dove la coesione sociale, l'uso efficiente delle risorse e la solidarietà delle istituzioni politiche ed economiche devono costituire le condizioni di base per creare un "mercato di qualità sociale", cogliere le opportunità del cambiamento e valorizzare e sviluppare le peculiarità locali per sfidare il fenomeno della globalizzazione e trovare uno spazio di tutto rispetto nel mercato competitivo, nazionale e internazionale. Coesione sociale, efficiente uso delle risorse e solidarietà, se declinati a prescindere dall'urgenza e dalla domanda di sussidiarietà che proviene dal basso rischiano di perpetuare la fragilità dello status quo e far sì che l'Italia resti il fanalino di coda tra i Paesi europei che già stanno mettendo in atto nuove forme di collaborazione pubblico-privato e nuovi strumenti finanziari per sostenere la crisi del welfare pubblico e con esso la crisi della democrazia.
Anche dal punto di vista politico, dal basso proviene una domanda di cambiamento del sistema democratico anche nel settore sociale, come dimostra il moltiplicarsi delle iniziative concrete rivolte al sociale che partono dalla società civile. Accanto ad alcune iniziative già esistenti, come il Banco alimentare, il volontariato, il commercio equo e solidale, il microcredito, il consumo critico, la finanza sociale, oggi la crisi non solo ha consolidato queste attività ma ha fatto emergere la disponibilità, soprattutto da parte dei giovani che hanno deciso di sfidare la crisi restando ancorati al proprio territorio, di prendere iniziative di partecipazione innovative (significativo è il fenomeno del retake) e di prendersi cura dei beni collettivi in vari settori di interesse sociale: ambientale, educativo, sanitario, culturale. È un modo di esprimere il desiderio di partecipazione attiva alla vita pubblica, che si identifica con la richiesta di cittadinanza, di identità e di solidarietà. Sono chiaramente dei segnali che vanno colti per ripensare la democrazia e rimodulare il sistema di Welfare secondo una logica che non può essere che di "innovativo restauro sociale", che presuppone un coraggioso cambiamento culturale, sia da parte dei cittadini che delle amministrazioni pubbliche, nel senso che bisogna prendere atto che ci troviamo in un punto di non ritorno che costringe tutti ad anteporre i "doveri" ai diritti e la "responsabilità sociale" all'individualismo, oggi premesse indispensabili per assicurare i diritti.
L'ormai acquisita consapevolezza che la crisi ha indebolito il tradizionale sistema di protezione sociale, sia a livello centrale che locale, soprattutto nell'assicurare la stabilità del lavoro e l'erogazione di molti servizi, rende interessante l'idea di riesaminare il modello di Welfare a livello locale, attraverso il superamento delle vecchie logiche competitive e mettendo insieme energie pubbliche e private per attuare politiche sociali innovative con l'utilizzo di tutte le risorse locali disponibili. In quest'ottica un ruolo importante può essere svolto in particolare dai Comuni (alcuni Comuni si sono già attivati), che, di fronte allo sgretolarsi dei rapporti tra cittadini e amministrazione pubblica e di fronte ai problemi di bilancio, hanno l'opportunità di ridare valore alla democrazia, di salvaguardare la coesione sociale e di contribuire al cambiamento, invocato da parecchi anni e che oggi la crisi sollecita. Soprattutto i Comuni del Mezzogiorno devono sentire maggiormente questo impegno in quanto la crisi ha lasciato effetti più visibili su una realtà impegnata da sempre a superare il gap esistente con il resto del Paese in termini di occupazione, reddito pro-capite, investimenti, trasporti, welfare.
Alla vecchia funzione di "erogatore di servizi" e, successivamente, alla funzione di "governo del territorio", oggi si aggiunge una nuova funzione che i Comuni hanno l'opportunità di svolgere per rispondere alle domande e alle iniziative che partono dal basso e dimostrare di portare avanti una gestione innovativa al passo con la realtà in mutamento, attraverso la ricerca di nuove forme di relazione tra cittadini e istituzioni per costruire i presupposti per una società più giusta, democratica e coesa. Per ripartire dalla politica, riteniamo che i Comuni, soprattutto i Comuni medio-piccoli, siano la dimensione istituzionale idonea per essere dei laboratori di democrazia in quanto è relativamente più facile tessere buone pratiche di relazione con i cittadini, che sono le basi per una migliore qualità del sistema democratico. È nei Comuni che la figura istituzionale, dal sindaco agli assessori, può interfacciarsi con i cittadini per un dialogo diretto e informale, conoscerne i bisogni e instaurare un clima di fiducia, che può diventare un'esperienza interessante e virtuosa da non sottovalutare. Sarà la fiducia l'ethos tra l'amministratore pubblico e i cittadini, che dovrà portare il primo ad accettare una maggiore partecipazione democratica della società civile e i secondi ad abbandonare l'idea dell'antipolitica e del populismo e di proporsi non solo in maniera collaborativa e propositiva ma anche e soprattutto "costruttiva". Entrambi devono rendersi consapevoli che è necessario fare fronte comune di fronte alla crisi e guardare nella stessa direzione per dare vita a sinergie che vadano a vantaggio della comunità. Si tratta in sostanza di applicare anche al settore sociale il principio di sussidiarietà, sia orizzontale (la libera iniziativa della società civile), ma soprattutto quello molto caro al prof. Stefano Zamagni, cioè il principio di sussidiarietà circolare, cioè il sedersi allo stesso tavolo amministratori locali, imprese e cittadini per un confronto non politico, competitivo e conflittuale ma collaborativo e di azione costruttiva; in altri termini, l'interagire di amministrazione pubblica, imprese e cittadini non solo nella progettazione ma anche nella "realizzazione dei progetti" a forte impatto sociale, tenendo in considerazione le iniziative dal basso che già operano e crearne di nuove (volontariato, Terzo settore, cooperative, organizzazioni non profit, imprese for profit ad impatto sociale). La sussidiarietà non significa sostituzione del Welfare pubblico ma, accanto a questo, l'insieme di attività messe in atto dalla società civile organizzata che arriva dove l'ente pubblico e il mercato non arrivano; l'ente pubblico per questioni di organizzazione strutturale e anche di limitatezza di risorse finanziarie e il mercato perché è un'istituzione privata, basata essenzialmente sul sistema dei prezzi di mercato e dove sono assenti motivazioni di benessere sociale. Sarebbe una forma di "Welfare fai da te a livello locale", capace di creare una "comunità" e di sprigionare altre qualità, altri valori (solidarietà, condivisione, reciprocità, gratuità, mutuo soccorso...), cioè tutti quegli aspetti di cui né la politica né il mercato si sono mai interessati. Anche a livello di governo centrale è al ricorso alla sussidiarietà verticale che si riferisce il recente invito agli 8.000 sindaci di tutta Italia da parte della presidente della Camera Laura Boldrini, affinchè ci sia una collaborazione e un confronto concreto e permanente su temi importanti, tra cui la finanza locale, l'ambiente, la legalità, l'immigrazione, il Welfare, con l'auspicio che "ciascuno dei sindaci d'Italia possa fornire un contributo di idee per concretizzare ogni utile forma possibile di collaborazione interistituzionale".
L'applicazione del principio di sussidiarietà in un contesto di crisi e di profondi cambiamenti diventa essenziale, in quanto riflette la consapevolezza che è necessario seguire in parallelo i percorsi dei "diritti" e dei "doveri", nel senso che ogni elargizione non deve essere unilaterale ma compensata da un corrispettivo in termini di produzione di servizi. Sulla validità della sussidiarietà orizzontale a livello nazionale si può citare come esempio l'assegno di accompagnamento agli anziani, con il quale, rendendo sussidiari i familiari, lo Stato ha evitato il costo per costruire case di riposo e, nello stesso tempo, responsabilizzando i privati, ha recuperato il valore relazionale dell'assistenza familiare informale.
A livello comunale è pertanto importante dare maggiore attenzione al settore sociale e agli ormai consolidati trade off con gli obiettivi economici e ambientali, seguendo non solo il modello dei "processi decisionali inclusivi" avviato da parecchi anni per predisporre i "Progetti Integrati Partecipati" (Patti territoriali, Conferenze dei servizi, Piani di zona per i servizi sociali, Progetti comunitari come "Urban", "Leader", "Interreg", etc., Progetti di sviluppo sostenibile come "Agenda 21 locale",), ma di andare oltre mettendo in atto un processo di attuazione inclusivo, che diventa un "processo di inclusione sociale",, cioè coinvolgere attivamente nella realizzazione dei progetti gli stessi cittadini e imprese, che metteranno a disposizione tempo, energie, idee, competenze ed esperienze, e che, trovandosi nella posizione di protagonisti, saranno in condizione di sviluppare una nuova coscienza civica. La necessità di coinvolgere i cittadini nella co-produzione dei servizi non è recente, ma il prolungarsi della crisi e la difficoltà di coperture finanziarie pubbliche rende indifferibile assegnare la priorità all'alternativa pubblico-privato nell'offerta dei servizi, che diventano sempre più complessi per l'emergere di nuovi bisogni. Gli effetti permetteranno di raggiungere più obiettivi: riduzione della disoccupazione, aumento della produttività, aumento del valore aggiunto nel settore sociale, aumento del benessere diffuso, oltre ai non trascurabili effetti solidaristici e relazionali che possono emergere dalla società civile e al modo responsabile di vivere la società di cui si fa parte, indispensabili per creare una comunità matura e un "capitale sociale e culturale", quel capitale che stenta ad essere inserito nell'agenda politica ma che contribuirebbe ad innalzare l'indice alternativo al Pil recentemente introdotto dall'Istat, il Bes (Benessere equo e sostenibile). Del resto è questo il senso che si è voluto inserire nella Costituzione con l'art.118, cioè l'introduzione della sussidiarietà orizzontale, affinchè l'obiettivo delle amministrazioni pubbliche andasse oltre la funzione burocratica di erogare servizi, ma fosse quello di mettere i cittadini in condizione di produrli da sé per creare empowerment, un "patrimonio immateriale" in termini di responsabilità e di legami di cooperazione e fiducia, che acquista tutta la sua importanza per il perdurare a lungo dei suoi effetti moltiplicativi in termini di rendimenti crescenti. La sussidiarietà in genere, e quella orizzontale in particolare, va pertanto considerata non solo come antidoto all'attuale stato di emergenza ma come impegno per creare una comunità che si educhi a continuare ad affrontare la quotidianità come emergenza anche oltre la crisi.
Se questa nuova organizzazione democratica può piacere ai cittadini responsabili perché li fa sentire parte integrante del territorio in cui vivono e perché possono svolgere un'attività lavorativa e diventare "imprenditori sociali", lo stesso non può dirsi per l'amministrazione pubblica, che, avendo già per legge la facoltà di stimolare la partecipazione e l'iniziativa della società civile a livello decisionale attraverso il processo di decisione inclusivo, ha dovuto affrontare difficoltà oggettive nella scelta dei partner o nelle inevitabili incomprensioni o nelle insidie che in esso si annidano, sebbene in molti casi tale procedura sia stata di grande aiuto nella definizione di politiche per lo sviluppo locale. Il processo di attuazione inclusivo a livello comunale elimina, o almeno attutisce, la complessità di decisione e realizzazione dei progetti, in quanto si riferisce a un'area territoriale più circoscritta rispetto ai Piani di zona e dove i partner non sono altre istituzioni o organizzazioni, ma solamente le imprese e i cittadini interessati direttamente, organizzati o meno. La strada da percorrere non è semplice, ma neanche impossibile se c'è, da un lato, una forte volontà e sensibilità politica nel considerare una risorsa preziosa la società civile e, dall'altro, se si segue un atteggiamento di apertura, sia da parte dei cittadini che dell'amministrazione pubblica nel suo insieme che, se basato sull'assenza di demagogia, compromessi, sospetti o teatrini politici ma sulla fiducia, sull'ascolto reciproco e sul rispetto dei limiti di competenza, faciliterà l'analisi del territorio per raggiungere le varie tappe del percorso, dalla mappatura dei bisogni e delle disponibilità alla produzione dei servizi e a tutte le strategie di intervento non profit e for profit a impatto sociale.
Ciò che la crisi chiede oggi ai Comuni è di avere la capacità di elaborazione della realtà in una visione profetica e prendere in mano il timone del cambiamento, innanzitutto con un coraggioso salto di qualità nell'amministrazione locale, in termini di competenza, trasparenza, ascolto, spirito di servizio, lungimiranza e concretizzazione di una democrazia collaborativa e partecipativa, salto di qualità che passa per la creazione di una Welfare community, destinata a diventare il tratto distintivo di una amministrazione efficiente e virtuosa, capace di spezzare il circolo vizioso, attrarre trasferimenti di risorse pubbliche e private, spingere il governo centrale verso una più veloce e completa regolamentazione del Terzo settore, e, più in alto, a livello europeo, spingere verso un riesame della strategia Europa 2020, affinchè l'UE - che considera l'integrazione un requisito essenziale per il finanziamento dei progetti locali - ponga una maggiore attenzione alle politiche di investimenti sociali, in linea con la Social business iniziative promossa nel 2011 dalla Commissione europea per rafforzare l'economia sociale di mercato.
Avere per la prima volta in Italia un Ministero del Lavoro e del Welfare con delega per la riforma del Terzo settore e vederne approvate le linee guida il 10 luglio 2014 e lo stanziamento di fondi per il settore sociale nella Legge di stabilità 2015 (impresa sociale, servizio civile universale, detrazioni per le donazioni alle Onlus, 5 permille, Social card), oltre la disponibilità da parte del governo alle consultazioni per definire altri aspetti importanti riguardo il fundraising e l'impresa sociale, fa ben sperare a breve nell'emanazione di decreti legislativi per regolamentare il Terzo settore, che potrà essere inserito a pieno titolo nel più generale meccanismo delle riforme istituzionali in atto (jobs act, riforma della giustizia, semplificazione della burocrazia). Sebbene sia ancora una riforma non completa e i fondi decisamente inadeguati, tuttavia il Disegno di legge delega per la riforma del Terzo settore assume grande importanza in quanto getta le basi per una evoluzione dell'economia sociale di mercato e per la riscoperta della "carità" in economia e in politica. Stante all'affermazione di Papa Francesco "la politica è carità", tutte le iniziative che partono dal basso rivolte al sociale, all'ambiente e al territorio vanno viste legate da un filo rosso in cui si può scorgere un senso di carità, che sarebbe auspicabile diventasse un principio permanente dell'agenda politica.
Innescare un nuovo processo di partecipazione può sembrare un cambio di prospettiva non indolore a livello di ente pubblico, che, dovendo delegare parte della sua autorità nell'amministrazione del territorio, vede sminuito il suo ruolo, ma una visione rinnovata alla luce della realtà dovrebbe portare alla considerazione che l'ente pubblico non si priva delle sue prerogative, ma le ricompone in una struttura di relazioni diversa e innovativa, nell'ambito della quale resta immutato il suo ruolo attivo in termini di impegno, intervento, garanzia, autorevolezza. Certo, l'impegno fondamentale e nuovo sarà quello di attivare risorse, pubbliche e private, e di coordinare la pluralità degli stakeholders disponibili sul territorio, promuovendo la creazione di una struttura sistemica impegnata a progettare, realizzare e finanziare tutte quelle attività che valorizzano il territorio con la produzione di beni e servizi di utilità sociale e tutte quelle attività con finalità solidaristiche. Perché il cambio di prospettiva sia indolore è necessario - oltre che integrare o, meglio, sostituire la dialettica politica con la dialettica di amore per il proprio territorio, che è quella che facilita gli accordi - il ricorso ad una buona dose di umiltà, che è la forma più alta di intelligenza, per accettare l'approccio post-moderno che proviene dal basso e dai giovani, che sono i veri pionieri del cambiamento, e - interpretando il senso del discorso di Papa Francesco in occasione della sua visita al Parlamento e al Consiglio europei il 25 novembre 2014 - fare politica non per occupare spazi ma per incoraggiare e favorire i processi e il dialogo tra le generazioni. Una seria riflessione sui concetti di democrazia e di cittadinanza costituisce una potente sfida alla crisi e al futuro, ma anche una via nuova e sicura perché la politica diventi credibile. Se vera democrazia significa principio di sovranità popolare, riconoscimento dei "diritti" e dei "doveri" e centralità della persona e dei suoi bisogni, l'ente pubblico è chiamato a instaurare un dialogo di rispetto reciproco con i cittadini, incoraggiandoli nella richiesta dei diritti e spronandoli nell'esecuzione dei doveri e della responsabilità sociale, utilizzando tutti gli strumenti che creano cittadinanza, tra cui il Welfare si configura il più importante. Dall'altro, il concetto di cittadinanza implica che quella dei cittadini non deve essere una posizione statica e passiva, ma dinamica e attiva nell'esercizio dei "diritti" e dei "doveri", che devono essere percepiti dai cittadini stessi ma anche stimolati dall'ente pubblico, affinchè si avvii un progetto di convivenza e un percorso di consapevolezza dell'importante ruolo che l'alleanza tra risorse pubbliche e private in una dimensione locale può avere nella costruzione della cittadinanza e di un tessuto produttivo e sociale virtuoso, dove la responsabilità diffusa e la sintesi equilibrata tra la forza creativa delle idee che proviene dal basso e la competenza e l'autorevolezza dell'ente pubblico potranno essere in grado di dare origine a sinergie positive per affermare democrazia e sviluppo.
Ma ciò che in questo contesto inquieta maggiormente è il cedimento del sistema di Welfare State, quel sistema che per decenni si è evoluto accanto alla crescita economica e alla democrazia e che ha rappresentato una grande conquista in termini di intervento pubblico nel settore sociale: dalla sanità al sistema scolastico, al sostegno alla disoccupazione, ai trasporti pubblici, all'edilizia popolare, al sistema pensionistico, alla cultura.
La disponibilità di risorse e la facilità di ottenere consensi con tale meccanismo di protezione sociale hanno dilatato la presenza pubblica e l'uso di risorse, rendendo possibile non solo il moltiplicarsi di inefficienze, sprechi e fenomeni di corruzione, ma, ancora più grave, hanno distolto dalla «responsabilità di programmare a lungo termine»: più flessibilità nel mercato del lavoro per sostenere la produttività, similmente a quanto hanno fatto altri paesi europei (Germania, Gran Bretagna, Paesi scandinavi); maggiori risorse destinate alla ricerca e alla formazione, due settori che avrebbero preparato ad affrontare la competizione internazionale; investimenti nel settore delle energie alternative per ridurre l'importazione di minerali energetici e tutelare l'ambiente; investimenti nel settore dei beni culturali per incrementare il turismo. In altri termini, si è trascurata la distribuzione della ricchezza tra le generazioni, costruendo un sistema di benessere sociale ma talmente fragile dal punto di vista dello «sviluppo» da rendere più problematico ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni fronteggiare la crisi che imperversa dal 2008.
Le necessarie, ma tardive, riforme strutturali che l'attuale governo sta mettendo in atto, pur rappresentando un tentativo di fare un passo avanti verso il superamento degli ostacoli alla ripresa economica, non sono sufficienti, almeno nel breve-medio periodo, per recuperare i "ritardi strutturali" e per affrontare con successo le criticità delle politiche sociali. La flessibilità del lavoro proposta come soluzione alla disoccupazione si presenta come un problema per i lavoratori non abituati a tale strumento, l'elargizione di bonus non è sufficiente per far ripartire i consumi e l'alta pressione fiscale non compensata dall'erogazione dei servizi diventa inaccettabile. Il tutto con alle spalle un debito pubblico che ha superato la soglia di tolleranza consentita e continui tagli alla spesa pubblica e ai trasferimenti di risorse agli enti locali, oltre lo spettro della deflazione.
Di fronte ai tanti problemi che si presentano irrisolvibili, alla scarsità delle risorse e ad una democrazia a rischio, il dibattito si divide tra pessimisti, che paventano il rischio di isteresi, e ottimisti, che confidano in un cambiamento, così come è avvenuto in altre epoche storiche, quando il cambiamento è stato accompagnato spesso dagli sviluppi della tecnologia. Non si può però non prendere atto che, a differenza delle crisi precedenti, il cui superamento presupponeva il raggiungimento del solo obiettivo economico, la crisi attuale è legata a numerose sfide, sia in ambito economico che sociale e ambientale, derivanti sia da problematiche interne che dal mutato scenario internazionale, che rendono difficoltoso il raggiungimento dei tre obiettivi in quanto l'uno è vincolo dell'altro. Intanto, una sfida è la stessa tecnologia che, a differenza dell'innovazione tecnologica del passato (macchine a vapore, meccanizzazione, elettrificazione, ecc), che dava l'opportunità di creare posti di lavoro, oggi la rivoluzione digitale, che riguarda l'innovazione nelle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni, tende a sostituire il fattore lavoro e viaggia ad una velocità tale da superare la capacità di gestione dei normali cicli economici. Soprattutto con l'introduzione di internet all'inizio degli anni Novanta, l'impatto della tecnologia è stato impetuoso nel favorire la globalizzazione e la competizione internazionale, che, con la trasformazione della produzione e del commercio di beni dei settori agricolo e industriale, specialmente del settore manifatturiero, ha configurato una nuova geografia economica, indebolendo le economie capitalistiche occidentali e facendo emergere nuovi attori nello scenario internazionale.
Le innumerevoli sfide rendono debole la capacità di azione degli Stati, basata ancora prevalentemente su un approccio dal lato dell'offerta e sull'uso dei tradizionali strumenti di intervento, che stanno risultando inadeguati di fronte a un ciclo economico anomalo: infatti, paradossalmente, un alto tasso di disoccupazione è accompagnato da un basso tasso di inflazione; di fronte ad una bassa inflazione la domanda di beni di consumo non aumenta, mentre aumenta il risparmio; e di fronte a tassi di interesse bassi non aumentano gli investimenti. Venendo meno la condizione di equilibrio economico keynesiana, cioè l'uguaglianza tra risparmi ed investimenti, l'inevitabile effetto è il blocco dell'attività produttiva, l'aumento della disoccupazione e l'aumento del rapporto debito pubblico/Pil.
La complessità delle sfide comincia comunque a mettere tutti d'accordo nel considerare che il modello socio-economico dominante e il sistema democratico presentano elementi di criticità non indifferenti che vanno ripensati e che ci troviamo in una fase lunga di transizione che, come tale, presenta difficoltà ad individuare le giuste priorità. Che fare in attesa che l'economia ritrovi le condizioni per ripartire verso un nuovo equilibrio, che non sarà certo a breve scadenza, e per evitare che in questo fragile spazio temporale si inneschino gravi conseguenze sia sociali che politiche? Da dove cominciare? Non si può sottovalutare che un ruolo importante per mettere in moto l'economia è svolto dagli investimenti, per cui non dovrebbe essere difficile comprendere che la strategia da seguire è quella di convogliare il risparmio, pubblico e privato (la cui propensione di quest'ultimo è tra le più alte tra i Paesi europei) negli investimenti che producono beni che assicurano un mercato di sbocco, interno ed estero, e servizi là dove la domanda è alta ed è in attesa di essere soddisfatta.
Da una necessaria rilettura della realtà ciò che emerge in tutta la sua drammaticità è il pesante disagio causato dal ridimensionamento della protezione sociale, ed è interessante notare che è nella società civile che si riscontra una maggiore consapevolezza dell'incapacità dello Stato Sociale di riportare la qualità della vita ai livelli pre-crisi, cioè in coloro che sulla propria pelle vivono gli effetti di questo prolungato periodo di recessione, che, pur non essendo economisti ma guidati da un istinto naturale che diventa razionale, hanno cominciato a fare di necessità virtù e rispolverato vecchie abitudini che erano scomparse, indicando l'orizzonte culturale verso cui si vuole tendere. Ne sono una dimostrazione i significativi cambiamenti negli stili di vita e nelle scelte dei consumatori, come la riduzione della propensione al consumo e degli sprechi, l'evolversi di fenomeni come il baratto, la sharing economy, la Banca del tempo, i consorzi per la vendita a chilometro zero, la riscoperta di mestieri antichi (dall'agricoltura alla ristorazione), la richiesta di lavoro e non di ammortizzatori sociali (che si comincia a considerarli strumenti-tampone da sostituire con il soddisfacimento della domanda di servizi). Così come si vanno moltiplicando iniziative di finanza sociale, di cooperative sociali, di servizi per l'infanzia e per gli anziani, di attività delle Fondazioni. Ci sembra comunque interessante sottolineare e porre al centro dell'attenzione che, nonostante il prolungarsi della crisi, crescono testimonianze di generosità e solidarietà, come l'aumento del volontariato, i Gruppi di acquisto solidali, le neonate pratiche del "sospeso", delle "ferie solidali" e delle Fondazioni di comunità.
Anche da parte delle imprese provengono segnali di solidarietà e di responsabilità sociale, come dimostra il sostegno dato ai dipendenti sotto forma di servizi, asili nido, buoni spese, etc. Ciò che è importante mettere in evidenza è che l'inclinazione al cambiamento che proviene dal basso, oltre a cominciare a raffigurare un modello socio-economico nuovo, mostra una velocità superiore rispetto a quella delle istituzioni. Dall'alto, infatti, si stenta a cogliere questi segnali di cambiamento e si stenta a comprendere che questa è la stagione dei grandi cambiamenti, sia economici che politici.
Dal punto di vista economico, una politica per la crescita del Pil e dell'occupazione attraverso l'aumento della domanda di beni di consumo che a sua volta dovrebbe stimolare gli investimenti - sebbene sia la ricetta keynesiana valida teoricamente, e lo è stata concretamente in passato - sta risultando una politica inefficace in un'economia matura e interdipendente - che ha il problema di eliminare gli sprechi del consumismo e affrontare la competizione internazionale - e in una società che sta vivendo un clima di sfiducia nelle istituzioni e di incertezza del futuro, che stimola invece all'aumento della propensione al risparmio per affrontare i rischi di una ridotta protezione sociale, oltre a dare vita a tensioni sociali e manifestazioni di insofferenza più o meno imprudenti. Anche le transazioni commerciali internazionali, tranne alcuni settori di nicchia, hanno subìto una flessione, a causa della globalità della crisi che riduce la domanda estera. Per cui consumi, investimenti privati ed esportazioni, le tre più importanti componenti della domanda aggregata che sostengono la crescita del Pil e dell'occupazione si trovano in uno stato di problematica insicurezza tale da non rispondere alle strategie di politica economica tradizionali, tanto più se messe in atto in assenza di una organica politica industriale e sociale.
Se si osservasse con più attenzione la realtà si noterebbe che l'unico settore in cui la domanda è superiore all'offerta, e quindi una domanda che non conosce flessione, anzi, è quella riguardante i servizi e le attività che si raggruppano nel settore sociale, settore che la politica per la crescita sta trascurando. Ogni economista, compreso il consigliere economico del governo, sa che il Pil aumenta se aumenta la domanda non solo di beni di consumo ma anche di servizi, e, in più, che gli investimenti nella produzione di servizi hanno effetti a breve. L'attuazione di una politica espansiva keynesiana deve tener conto dell'attuale carenza del sistema di protezione sociale, che suggerisce che è da questo settore che bisogna ripartire come strategia anticiclica, e la carenza di risorse finanziarie suggerisce che questo settore può catalizzare risorse e può trovare un equilibrio tra domanda (alta) e offerta (bassa) con il rafforzamento di tutte quelle realtà che sono attive nei settori a forte impatto sociale e con l'istituzionalizzazione delle attività del Terzo settore e con le energie che vi operano e che potenzialmente potrebbero dilatarlo. Del resto il compito dello Stato in un'economia in crisi è proprio quello di un maggiore intervento rivolto a ridurre le disuguaglianze sociali anche sotto i vincoli di bilancio, tenendo presente che, come sostiene l'economista Luigi Campiglio, tagliare il Welfare equivale a tagliare le radici su cui un albero cresce.
Il Terzo settore, riferendosi non ai settori di attività ma ai pilastri dell'economia, costituisce, insieme allo Stato e al Mercato, il terzo pilastro, che il vecchio paradigma economico ha trascurato e tenuto ai margini delle politiche sociali. Rappresentando tutte quelle attività che partono dalla società civile, il Terzo settore si configura oggi come la via privilegiata per "sbloccare il circolo vizioso", andando ad occupare - come ha sempre fatto ma in condizioni di marginalità e secondo la logica della filantropia - tutti gli spazi lasciati vuoti dallo Stato e dal Mercato. Concentrare pertanto l'attenzione sulle politiche espansive nel settore sociale e dare più spazio al Terzo settore avrebbe l'effetto di aumentare il Pil, l'occupazione e soddisfare la domanda di Welfare e, indirettamente, aumentare la domanda di consumi e di investimenti. Inoltre, di fronte alle situazioni esplosive provenienti dalle fasce più deboli della popolazione, l'effetto più importante da non trascurare sarebbe il mantenimento della coesione sociale.
Sebbene il Terzo settore in tutte le sue espressioni sia un ambito di studio complesso, spesso anche nella sua definizione, tuttavia, anche al di fuori di una collocazione teorica, si assiste al moltiplicarsi di studi che stanno alimentando un dibattito a livello scientifico, interessando vari settori disciplinari: economico, sociologico, antropologico, giuridico e aziendale. I diversi punti di vista concordano sulla necessità di una sua regolamentazione per essere un efficace antidoto alla crisi e sulla validità dell'innovazione sociale secondo un approccio di tipo bottom-up. Queste tesi sono avvalorate peraltro dalla constatazione che le attività del Terzo settore sono aumentate anche in piena crisi economica, come dimostrano i dati Istat e come dimostra la fiducia che il non profit ha riscosso in alcuni istituti bancari, che hanno dedicato molta attenzione alle esigenze del settore sociale in un'ottica solidale.
È chiaro che da solo il settore sociale non risolve i problemi della crescita, ma ha l'importante ruolo di orientare il cambiamento in atto verso un nuovo modello di sviluppo, dove la coesione sociale, l'uso efficiente delle risorse e la solidarietà delle istituzioni politiche ed economiche devono costituire le condizioni di base per creare un "mercato di qualità sociale", cogliere le opportunità del cambiamento e valorizzare e sviluppare le peculiarità locali per sfidare il fenomeno della globalizzazione e trovare uno spazio di tutto rispetto nel mercato competitivo, nazionale e internazionale. Coesione sociale, efficiente uso delle risorse e solidarietà, se declinati a prescindere dall'urgenza e dalla domanda di sussidiarietà che proviene dal basso rischiano di perpetuare la fragilità dello status quo e far sì che l'Italia resti il fanalino di coda tra i Paesi europei che già stanno mettendo in atto nuove forme di collaborazione pubblico-privato e nuovi strumenti finanziari per sostenere la crisi del welfare pubblico e con esso la crisi della democrazia.
Anche dal punto di vista politico, dal basso proviene una domanda di cambiamento del sistema democratico anche nel settore sociale, come dimostra il moltiplicarsi delle iniziative concrete rivolte al sociale che partono dalla società civile. Accanto ad alcune iniziative già esistenti, come il Banco alimentare, il volontariato, il commercio equo e solidale, il microcredito, il consumo critico, la finanza sociale, oggi la crisi non solo ha consolidato queste attività ma ha fatto emergere la disponibilità, soprattutto da parte dei giovani che hanno deciso di sfidare la crisi restando ancorati al proprio territorio, di prendere iniziative di partecipazione innovative (significativo è il fenomeno del retake) e di prendersi cura dei beni collettivi in vari settori di interesse sociale: ambientale, educativo, sanitario, culturale. È un modo di esprimere il desiderio di partecipazione attiva alla vita pubblica, che si identifica con la richiesta di cittadinanza, di identità e di solidarietà. Sono chiaramente dei segnali che vanno colti per ripensare la democrazia e rimodulare il sistema di Welfare secondo una logica che non può essere che di "innovativo restauro sociale", che presuppone un coraggioso cambiamento culturale, sia da parte dei cittadini che delle amministrazioni pubbliche, nel senso che bisogna prendere atto che ci troviamo in un punto di non ritorno che costringe tutti ad anteporre i "doveri" ai diritti e la "responsabilità sociale" all'individualismo, oggi premesse indispensabili per assicurare i diritti.
L'ormai acquisita consapevolezza che la crisi ha indebolito il tradizionale sistema di protezione sociale, sia a livello centrale che locale, soprattutto nell'assicurare la stabilità del lavoro e l'erogazione di molti servizi, rende interessante l'idea di riesaminare il modello di Welfare a livello locale, attraverso il superamento delle vecchie logiche competitive e mettendo insieme energie pubbliche e private per attuare politiche sociali innovative con l'utilizzo di tutte le risorse locali disponibili. In quest'ottica un ruolo importante può essere svolto in particolare dai Comuni (alcuni Comuni si sono già attivati), che, di fronte allo sgretolarsi dei rapporti tra cittadini e amministrazione pubblica e di fronte ai problemi di bilancio, hanno l'opportunità di ridare valore alla democrazia, di salvaguardare la coesione sociale e di contribuire al cambiamento, invocato da parecchi anni e che oggi la crisi sollecita. Soprattutto i Comuni del Mezzogiorno devono sentire maggiormente questo impegno in quanto la crisi ha lasciato effetti più visibili su una realtà impegnata da sempre a superare il gap esistente con il resto del Paese in termini di occupazione, reddito pro-capite, investimenti, trasporti, welfare.
Alla vecchia funzione di "erogatore di servizi" e, successivamente, alla funzione di "governo del territorio", oggi si aggiunge una nuova funzione che i Comuni hanno l'opportunità di svolgere per rispondere alle domande e alle iniziative che partono dal basso e dimostrare di portare avanti una gestione innovativa al passo con la realtà in mutamento, attraverso la ricerca di nuove forme di relazione tra cittadini e istituzioni per costruire i presupposti per una società più giusta, democratica e coesa. Per ripartire dalla politica, riteniamo che i Comuni, soprattutto i Comuni medio-piccoli, siano la dimensione istituzionale idonea per essere dei laboratori di democrazia in quanto è relativamente più facile tessere buone pratiche di relazione con i cittadini, che sono le basi per una migliore qualità del sistema democratico. È nei Comuni che la figura istituzionale, dal sindaco agli assessori, può interfacciarsi con i cittadini per un dialogo diretto e informale, conoscerne i bisogni e instaurare un clima di fiducia, che può diventare un'esperienza interessante e virtuosa da non sottovalutare. Sarà la fiducia l'ethos tra l'amministratore pubblico e i cittadini, che dovrà portare il primo ad accettare una maggiore partecipazione democratica della società civile e i secondi ad abbandonare l'idea dell'antipolitica e del populismo e di proporsi non solo in maniera collaborativa e propositiva ma anche e soprattutto "costruttiva". Entrambi devono rendersi consapevoli che è necessario fare fronte comune di fronte alla crisi e guardare nella stessa direzione per dare vita a sinergie che vadano a vantaggio della comunità. Si tratta in sostanza di applicare anche al settore sociale il principio di sussidiarietà, sia orizzontale (la libera iniziativa della società civile), ma soprattutto quello molto caro al prof. Stefano Zamagni, cioè il principio di sussidiarietà circolare, cioè il sedersi allo stesso tavolo amministratori locali, imprese e cittadini per un confronto non politico, competitivo e conflittuale ma collaborativo e di azione costruttiva; in altri termini, l'interagire di amministrazione pubblica, imprese e cittadini non solo nella progettazione ma anche nella "realizzazione dei progetti" a forte impatto sociale, tenendo in considerazione le iniziative dal basso che già operano e crearne di nuove (volontariato, Terzo settore, cooperative, organizzazioni non profit, imprese for profit ad impatto sociale). La sussidiarietà non significa sostituzione del Welfare pubblico ma, accanto a questo, l'insieme di attività messe in atto dalla società civile organizzata che arriva dove l'ente pubblico e il mercato non arrivano; l'ente pubblico per questioni di organizzazione strutturale e anche di limitatezza di risorse finanziarie e il mercato perché è un'istituzione privata, basata essenzialmente sul sistema dei prezzi di mercato e dove sono assenti motivazioni di benessere sociale. Sarebbe una forma di "Welfare fai da te a livello locale", capace di creare una "comunità" e di sprigionare altre qualità, altri valori (solidarietà, condivisione, reciprocità, gratuità, mutuo soccorso...), cioè tutti quegli aspetti di cui né la politica né il mercato si sono mai interessati. Anche a livello di governo centrale è al ricorso alla sussidiarietà verticale che si riferisce il recente invito agli 8.000 sindaci di tutta Italia da parte della presidente della Camera Laura Boldrini, affinchè ci sia una collaborazione e un confronto concreto e permanente su temi importanti, tra cui la finanza locale, l'ambiente, la legalità, l'immigrazione, il Welfare, con l'auspicio che "ciascuno dei sindaci d'Italia possa fornire un contributo di idee per concretizzare ogni utile forma possibile di collaborazione interistituzionale".
L'applicazione del principio di sussidiarietà in un contesto di crisi e di profondi cambiamenti diventa essenziale, in quanto riflette la consapevolezza che è necessario seguire in parallelo i percorsi dei "diritti" e dei "doveri", nel senso che ogni elargizione non deve essere unilaterale ma compensata da un corrispettivo in termini di produzione di servizi. Sulla validità della sussidiarietà orizzontale a livello nazionale si può citare come esempio l'assegno di accompagnamento agli anziani, con il quale, rendendo sussidiari i familiari, lo Stato ha evitato il costo per costruire case di riposo e, nello stesso tempo, responsabilizzando i privati, ha recuperato il valore relazionale dell'assistenza familiare informale.
A livello comunale è pertanto importante dare maggiore attenzione al settore sociale e agli ormai consolidati trade off con gli obiettivi economici e ambientali, seguendo non solo il modello dei "processi decisionali inclusivi" avviato da parecchi anni per predisporre i "Progetti Integrati Partecipati" (Patti territoriali, Conferenze dei servizi, Piani di zona per i servizi sociali, Progetti comunitari come "Urban", "Leader", "Interreg", etc., Progetti di sviluppo sostenibile come "Agenda 21 locale",), ma di andare oltre mettendo in atto un processo di attuazione inclusivo, che diventa un "processo di inclusione sociale",, cioè coinvolgere attivamente nella realizzazione dei progetti gli stessi cittadini e imprese, che metteranno a disposizione tempo, energie, idee, competenze ed esperienze, e che, trovandosi nella posizione di protagonisti, saranno in condizione di sviluppare una nuova coscienza civica. La necessità di coinvolgere i cittadini nella co-produzione dei servizi non è recente, ma il prolungarsi della crisi e la difficoltà di coperture finanziarie pubbliche rende indifferibile assegnare la priorità all'alternativa pubblico-privato nell'offerta dei servizi, che diventano sempre più complessi per l'emergere di nuovi bisogni. Gli effetti permetteranno di raggiungere più obiettivi: riduzione della disoccupazione, aumento della produttività, aumento del valore aggiunto nel settore sociale, aumento del benessere diffuso, oltre ai non trascurabili effetti solidaristici e relazionali che possono emergere dalla società civile e al modo responsabile di vivere la società di cui si fa parte, indispensabili per creare una comunità matura e un "capitale sociale e culturale", quel capitale che stenta ad essere inserito nell'agenda politica ma che contribuirebbe ad innalzare l'indice alternativo al Pil recentemente introdotto dall'Istat, il Bes (Benessere equo e sostenibile). Del resto è questo il senso che si è voluto inserire nella Costituzione con l'art.118, cioè l'introduzione della sussidiarietà orizzontale, affinchè l'obiettivo delle amministrazioni pubbliche andasse oltre la funzione burocratica di erogare servizi, ma fosse quello di mettere i cittadini in condizione di produrli da sé per creare empowerment, un "patrimonio immateriale" in termini di responsabilità e di legami di cooperazione e fiducia, che acquista tutta la sua importanza per il perdurare a lungo dei suoi effetti moltiplicativi in termini di rendimenti crescenti. La sussidiarietà in genere, e quella orizzontale in particolare, va pertanto considerata non solo come antidoto all'attuale stato di emergenza ma come impegno per creare una comunità che si educhi a continuare ad affrontare la quotidianità come emergenza anche oltre la crisi.
Se questa nuova organizzazione democratica può piacere ai cittadini responsabili perché li fa sentire parte integrante del territorio in cui vivono e perché possono svolgere un'attività lavorativa e diventare "imprenditori sociali", lo stesso non può dirsi per l'amministrazione pubblica, che, avendo già per legge la facoltà di stimolare la partecipazione e l'iniziativa della società civile a livello decisionale attraverso il processo di decisione inclusivo, ha dovuto affrontare difficoltà oggettive nella scelta dei partner o nelle inevitabili incomprensioni o nelle insidie che in esso si annidano, sebbene in molti casi tale procedura sia stata di grande aiuto nella definizione di politiche per lo sviluppo locale. Il processo di attuazione inclusivo a livello comunale elimina, o almeno attutisce, la complessità di decisione e realizzazione dei progetti, in quanto si riferisce a un'area territoriale più circoscritta rispetto ai Piani di zona e dove i partner non sono altre istituzioni o organizzazioni, ma solamente le imprese e i cittadini interessati direttamente, organizzati o meno. La strada da percorrere non è semplice, ma neanche impossibile se c'è, da un lato, una forte volontà e sensibilità politica nel considerare una risorsa preziosa la società civile e, dall'altro, se si segue un atteggiamento di apertura, sia da parte dei cittadini che dell'amministrazione pubblica nel suo insieme che, se basato sull'assenza di demagogia, compromessi, sospetti o teatrini politici ma sulla fiducia, sull'ascolto reciproco e sul rispetto dei limiti di competenza, faciliterà l'analisi del territorio per raggiungere le varie tappe del percorso, dalla mappatura dei bisogni e delle disponibilità alla produzione dei servizi e a tutte le strategie di intervento non profit e for profit a impatto sociale.
Ciò che la crisi chiede oggi ai Comuni è di avere la capacità di elaborazione della realtà in una visione profetica e prendere in mano il timone del cambiamento, innanzitutto con un coraggioso salto di qualità nell'amministrazione locale, in termini di competenza, trasparenza, ascolto, spirito di servizio, lungimiranza e concretizzazione di una democrazia collaborativa e partecipativa, salto di qualità che passa per la creazione di una Welfare community, destinata a diventare il tratto distintivo di una amministrazione efficiente e virtuosa, capace di spezzare il circolo vizioso, attrarre trasferimenti di risorse pubbliche e private, spingere il governo centrale verso una più veloce e completa regolamentazione del Terzo settore, e, più in alto, a livello europeo, spingere verso un riesame della strategia Europa 2020, affinchè l'UE - che considera l'integrazione un requisito essenziale per il finanziamento dei progetti locali - ponga una maggiore attenzione alle politiche di investimenti sociali, in linea con la Social business iniziative promossa nel 2011 dalla Commissione europea per rafforzare l'economia sociale di mercato.
Avere per la prima volta in Italia un Ministero del Lavoro e del Welfare con delega per la riforma del Terzo settore e vederne approvate le linee guida il 10 luglio 2014 e lo stanziamento di fondi per il settore sociale nella Legge di stabilità 2015 (impresa sociale, servizio civile universale, detrazioni per le donazioni alle Onlus, 5 permille, Social card), oltre la disponibilità da parte del governo alle consultazioni per definire altri aspetti importanti riguardo il fundraising e l'impresa sociale, fa ben sperare a breve nell'emanazione di decreti legislativi per regolamentare il Terzo settore, che potrà essere inserito a pieno titolo nel più generale meccanismo delle riforme istituzionali in atto (jobs act, riforma della giustizia, semplificazione della burocrazia). Sebbene sia ancora una riforma non completa e i fondi decisamente inadeguati, tuttavia il Disegno di legge delega per la riforma del Terzo settore assume grande importanza in quanto getta le basi per una evoluzione dell'economia sociale di mercato e per la riscoperta della "carità" in economia e in politica. Stante all'affermazione di Papa Francesco "la politica è carità", tutte le iniziative che partono dal basso rivolte al sociale, all'ambiente e al territorio vanno viste legate da un filo rosso in cui si può scorgere un senso di carità, che sarebbe auspicabile diventasse un principio permanente dell'agenda politica.
Innescare un nuovo processo di partecipazione può sembrare un cambio di prospettiva non indolore a livello di ente pubblico, che, dovendo delegare parte della sua autorità nell'amministrazione del territorio, vede sminuito il suo ruolo, ma una visione rinnovata alla luce della realtà dovrebbe portare alla considerazione che l'ente pubblico non si priva delle sue prerogative, ma le ricompone in una struttura di relazioni diversa e innovativa, nell'ambito della quale resta immutato il suo ruolo attivo in termini di impegno, intervento, garanzia, autorevolezza. Certo, l'impegno fondamentale e nuovo sarà quello di attivare risorse, pubbliche e private, e di coordinare la pluralità degli stakeholders disponibili sul territorio, promuovendo la creazione di una struttura sistemica impegnata a progettare, realizzare e finanziare tutte quelle attività che valorizzano il territorio con la produzione di beni e servizi di utilità sociale e tutte quelle attività con finalità solidaristiche. Perché il cambio di prospettiva sia indolore è necessario - oltre che integrare o, meglio, sostituire la dialettica politica con la dialettica di amore per il proprio territorio, che è quella che facilita gli accordi - il ricorso ad una buona dose di umiltà, che è la forma più alta di intelligenza, per accettare l'approccio post-moderno che proviene dal basso e dai giovani, che sono i veri pionieri del cambiamento, e - interpretando il senso del discorso di Papa Francesco in occasione della sua visita al Parlamento e al Consiglio europei il 25 novembre 2014 - fare politica non per occupare spazi ma per incoraggiare e favorire i processi e il dialogo tra le generazioni. Una seria riflessione sui concetti di democrazia e di cittadinanza costituisce una potente sfida alla crisi e al futuro, ma anche una via nuova e sicura perché la politica diventi credibile. Se vera democrazia significa principio di sovranità popolare, riconoscimento dei "diritti" e dei "doveri" e centralità della persona e dei suoi bisogni, l'ente pubblico è chiamato a instaurare un dialogo di rispetto reciproco con i cittadini, incoraggiandoli nella richiesta dei diritti e spronandoli nell'esecuzione dei doveri e della responsabilità sociale, utilizzando tutti gli strumenti che creano cittadinanza, tra cui il Welfare si configura il più importante. Dall'altro, il concetto di cittadinanza implica che quella dei cittadini non deve essere una posizione statica e passiva, ma dinamica e attiva nell'esercizio dei "diritti" e dei "doveri", che devono essere percepiti dai cittadini stessi ma anche stimolati dall'ente pubblico, affinchè si avvii un progetto di convivenza e un percorso di consapevolezza dell'importante ruolo che l'alleanza tra risorse pubbliche e private in una dimensione locale può avere nella costruzione della cittadinanza e di un tessuto produttivo e sociale virtuoso, dove la responsabilità diffusa e la sintesi equilibrata tra la forza creativa delle idee che proviene dal basso e la competenza e l'autorevolezza dell'ente pubblico potranno essere in grado di dare origine a sinergie positive per affermare democrazia e sviluppo.
10/12/2014 | 11359 letture | 0 commenti
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