Terza pagina
Di bullismo si muore, ce lo aveva già detto Verga
«Il maestro non c'era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero Crossi, quello coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e sua madre vende erbaggi. Lo stuzzicavano colle righe, gli buttavano in faccia delle scorze di castagne e gli davano dello storpio e del mostro, contraffacendolo, col suo braccio al collo. Ed egli tutto solo in fondo al banco, smorto, stava a sentire, guardando ora l'uno ora l'altro con gli occhi supplichevoli, perché lo lasciassero stare. Ma gli altri sempre più lo sbeffavano, ed egli cominciò a tremare e a farsi rosso dalla rabbia. A un tratto Franti, quella brutta faccia, salì su un banco, e facendo mostra di portar due cesti sulle braccia, scimmiottò la mamma di Crossi, quando veniva a aspettare il figliuolo alla porta, perché ora è malata. Molti si misero a ridere forte» (da Cuore, di Edmondo De Amicis).
Sembra una normale scena dei nostri giorni. Di Franti sono piene le aule, dentro le quali l'esuberanza giovanile ha passato il limite e la convivenza è obbligata: il più forte e il più debole stanno uno di fianco all'altro ogni mattina. Se non riesci a difenderti dai Franti, ti stanchi di stare al mondo, arrivi anche a pensare alla morte. Lo sanno bene i genitori di Francesco Scerbo, il ragazzino ucciso da un bullo nel 1995, e i genitori della ragazzina di Pordenone, che ha tentato di uccidersi a soli 12 anni, dopo avere scritto una lettera a loro e ai compagni di classe.
Nessuno però meglio di un verista come Verga ci aiuta a capire quel bullismo che c'era anche più di cento anni fa, in una realtà che, allora come oggi, non educa ma travolge. Con Rosso Malpelo lo scrittore trova un personaggio emblematico della "diversità": non solo egli è orfano e più debole e indifeso dei suoi coetanei, ma ha anche i capelli rossi, che simboleggiano la sua malvagità e sembrano legittimare la persecuzione sociale di cui è vittima. Nella società superstizioni e pregiudizi sono duri a morire, si sa. La storia del rosso ragazzo soprannominato Malpelo è quella dei tanti "carusi" che lavoravano nelle cave della Sicilia: un cavatore di rena, precocemente indurito dai disagi notevoli della vita e dalla sua triste condizione di sfruttato, fino al punto di sembrare cinico e senza cuore. In realtà, Malpelo ha dentro di sé una sua umanità e un suo bisogno di affetto, che manifesta nel rapporto, in apparenza violento, con Ranocchio, un adolescente come lui, ma più debole, e, soprattutto, nel rapporto, personale e silenzioso, con il padre, morto in un incidente sul lavoro nella cava di rena. Quella cava nella quale anche lui finirà i suoi giorni, senza lasciare traccia di sé.
«Viveva come una bestia Rosso». Viveva difendendosi dagli altri perché non sapeva relazionarsi con loro. L'unico modo di comunicare per lui era quello che gli avevano insegnato, quello della violenza. Non aveva mai ricevuto una carezza dalla madre né dalla sorella che «gli faceva la ricevuta a scapaccioni», nel dubbio che non consegnasse la paga per intero. Era stato costretto a lavorare nella cava, senza poter andare a scuola né gustare l'azzurro del cielo o il verde dei campi. «Accarezzato coi piedi», lasciava che gli altri lo picchiassero senza pietà, si rassegnava a sopportare le percosse, ma imparava a picchiare più forte, per poi riuscire a vendicarsi a suo modo, di soppiatto. Era come se riuscisse ad assimilare la violenza che subiva per poi insegnare la lezione agli altri. Era crudele con i ragazzi perché voleva vendicarsi sui più deboli per tutto il male che gli altri facevano a lui. E cercava di trasmettere a Ranocchio la sua legge della sopravvivenza. «To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! [...] Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra».
Recitava bene la parte di malvagio che gli era stata assegnata e si prendeva i castighi anche quando non li meritava. Dopo la morte del padre, però, e dopo il ritrovamento di una delle sue scarpe, Malpelo fu «colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa… Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti». Quando poi trovarono il corpo del padre sotto il pilastro di rena, Malpelo fu lieto di poterne indossarne i pantaloni, «dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose». Stranamente rifiutò di vendere gli strumenti del padre, decisione incomprensibile per il narratore, poiché, in un mondo spietatamente economico come quello di Rosso, niente è più strano di questo affetto disinteressato verso degli oggetti. In realtà proprio in questi oggetti Malpelo continua la storia del padre e si costruisce attorno un ambiente che lo rassicuri e lo protegga da una società che ha provocato in lui una profonda ferita esistenziale.
Nei suoi sogni c'era un mondo diverso, rappresentato appunto dalle carezze di un padre premuroso, e dal pensiero che si sarebbe potuto lavorare diversamente, «come il manovale, cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, o come il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa». Avrebbe voluto anche lui una madre come quella di Ranocchio e la certezza di quest'ultimo dell'esistenza di un paradiso dove vanno, da morti, i bambini buoni. Aveva imparato invece che gli arnesi che non servono più si buttano lontano, come aveva fatto il carrettiere con l'asino grigio morto di stenti e di vecchiaia. Aveva imparato che una madre vuole bene ad un figlio in base ai soldi guadagnati e si stupiva quindi per il pianto della madre di Ranocchio per il figlio ammalato.
Quando alla cava dissero che Ranocchio era morto, «pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con il Ranocchio». Si era fatto una sua idea della morte: la fine della vita è una distruzione totale ed il risvolto positivo era che i morti non possono più sentire le percosse. E così quando anche i suoi giorni sarebbero giunti al termine non avrebbe dovuto più subire maltrattamenti. Del grigio ora non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
«Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.» Così un giorno prese gli attrezzi, il pane e il vino, e si diresse sotto terra per l'ultima volta. Sapeva che nessuno avrebbe pianto per la sua morte.
Una storia incredibilmente attuale, quella di Rosso. Un ragazzo diventato bullo per il suo vissuto personale e familiare. Uno dei tanti. Non lasciamo perdere i ragazzi-bulli nel buio di una galleria sotterranea. Questo sembra dirci il Verga, che, rifacendosi alle inchieste del nascente Regno d'Italia, voleva ritrarre la realtà dei ragazzi sfruttati in miniera, una particolare categoria di vinti. E così fa svelandoci anche una grande verità: gli uomini fanno gruppo contro un diverso per sentirsi esistere, per sentirsi forti.
Grazie allo scrittore verista, è stata realizzata, il 16 marzo 2015, la prima giornata dedicata alla cultura della non violenza nelle scuole siciliane, dal titolo "Aiutiamo Rosso Malpelo". La scuola infatti rappresenta oggi un terreno fertile per il bullismo e il 41 percento degli studenti ne è coinvolto con un ruolo attivo, come risulta dalle ricerche condotte dagli anni 80 ad oggi, periodo in cui il fenomeno è diventato oggetto di forte interesse.
La parola «bullo» fu usata per la prima volta da Tommaso Garzoni, erudito nato a Bagnacavallo, in una sua opera, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, pubblicata a Venezia nel 1585. In quest'opera, il termine era affiancato a «bravazzi, spadaccini e sgherri di piazza». Il primo a registrare questo termine in un dizionario fu Alfredo Panzini, nel senso di «smargiasso, bravaccio, teppista». Il significato della parola si associa pertanto fin dall'inizio ad un'idea di violenza organizzata.
Oggi è diventata una moda nelle scuole colpire chi è diverso: chi studia, chi è disabile, chi è grosso, chi è timido. E l'aggressione è sempre perpetrata di fronte agli altri compagni e immortalata dai telefonini. Si aggredisce e si ferisce anche su gruppi Whatsapp e Facebook. E, come ai tempi di Verga, di bullismo si muore. O comunque si muore dentro.
Sembra una normale scena dei nostri giorni. Di Franti sono piene le aule, dentro le quali l'esuberanza giovanile ha passato il limite e la convivenza è obbligata: il più forte e il più debole stanno uno di fianco all'altro ogni mattina. Se non riesci a difenderti dai Franti, ti stanchi di stare al mondo, arrivi anche a pensare alla morte. Lo sanno bene i genitori di Francesco Scerbo, il ragazzino ucciso da un bullo nel 1995, e i genitori della ragazzina di Pordenone, che ha tentato di uccidersi a soli 12 anni, dopo avere scritto una lettera a loro e ai compagni di classe.
Nessuno però meglio di un verista come Verga ci aiuta a capire quel bullismo che c'era anche più di cento anni fa, in una realtà che, allora come oggi, non educa ma travolge. Con Rosso Malpelo lo scrittore trova un personaggio emblematico della "diversità": non solo egli è orfano e più debole e indifeso dei suoi coetanei, ma ha anche i capelli rossi, che simboleggiano la sua malvagità e sembrano legittimare la persecuzione sociale di cui è vittima. Nella società superstizioni e pregiudizi sono duri a morire, si sa. La storia del rosso ragazzo soprannominato Malpelo è quella dei tanti "carusi" che lavoravano nelle cave della Sicilia: un cavatore di rena, precocemente indurito dai disagi notevoli della vita e dalla sua triste condizione di sfruttato, fino al punto di sembrare cinico e senza cuore. In realtà, Malpelo ha dentro di sé una sua umanità e un suo bisogno di affetto, che manifesta nel rapporto, in apparenza violento, con Ranocchio, un adolescente come lui, ma più debole, e, soprattutto, nel rapporto, personale e silenzioso, con il padre, morto in un incidente sul lavoro nella cava di rena. Quella cava nella quale anche lui finirà i suoi giorni, senza lasciare traccia di sé.
«Viveva come una bestia Rosso». Viveva difendendosi dagli altri perché non sapeva relazionarsi con loro. L'unico modo di comunicare per lui era quello che gli avevano insegnato, quello della violenza. Non aveva mai ricevuto una carezza dalla madre né dalla sorella che «gli faceva la ricevuta a scapaccioni», nel dubbio che non consegnasse la paga per intero. Era stato costretto a lavorare nella cava, senza poter andare a scuola né gustare l'azzurro del cielo o il verde dei campi. «Accarezzato coi piedi», lasciava che gli altri lo picchiassero senza pietà, si rassegnava a sopportare le percosse, ma imparava a picchiare più forte, per poi riuscire a vendicarsi a suo modo, di soppiatto. Era come se riuscisse ad assimilare la violenza che subiva per poi insegnare la lezione agli altri. Era crudele con i ragazzi perché voleva vendicarsi sui più deboli per tutto il male che gli altri facevano a lui. E cercava di trasmettere a Ranocchio la sua legge della sopravvivenza. «To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! [...] Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra».
Recitava bene la parte di malvagio che gli era stata assegnata e si prendeva i castighi anche quando non li meritava. Dopo la morte del padre, però, e dopo il ritrovamento di una delle sue scarpe, Malpelo fu «colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa… Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti». Quando poi trovarono il corpo del padre sotto il pilastro di rena, Malpelo fu lieto di poterne indossarne i pantaloni, «dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose». Stranamente rifiutò di vendere gli strumenti del padre, decisione incomprensibile per il narratore, poiché, in un mondo spietatamente economico come quello di Rosso, niente è più strano di questo affetto disinteressato verso degli oggetti. In realtà proprio in questi oggetti Malpelo continua la storia del padre e si costruisce attorno un ambiente che lo rassicuri e lo protegga da una società che ha provocato in lui una profonda ferita esistenziale.
Nei suoi sogni c'era un mondo diverso, rappresentato appunto dalle carezze di un padre premuroso, e dal pensiero che si sarebbe potuto lavorare diversamente, «come il manovale, cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, o come il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa». Avrebbe voluto anche lui una madre come quella di Ranocchio e la certezza di quest'ultimo dell'esistenza di un paradiso dove vanno, da morti, i bambini buoni. Aveva imparato invece che gli arnesi che non servono più si buttano lontano, come aveva fatto il carrettiere con l'asino grigio morto di stenti e di vecchiaia. Aveva imparato che una madre vuole bene ad un figlio in base ai soldi guadagnati e si stupiva quindi per il pianto della madre di Ranocchio per il figlio ammalato.
Quando alla cava dissero che Ranocchio era morto, «pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con il Ranocchio». Si era fatto una sua idea della morte: la fine della vita è una distruzione totale ed il risvolto positivo era che i morti non possono più sentire le percosse. E così quando anche i suoi giorni sarebbero giunti al termine non avrebbe dovuto più subire maltrattamenti. Del grigio ora non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
«Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.» Così un giorno prese gli attrezzi, il pane e il vino, e si diresse sotto terra per l'ultima volta. Sapeva che nessuno avrebbe pianto per la sua morte.
Una storia incredibilmente attuale, quella di Rosso. Un ragazzo diventato bullo per il suo vissuto personale e familiare. Uno dei tanti. Non lasciamo perdere i ragazzi-bulli nel buio di una galleria sotterranea. Questo sembra dirci il Verga, che, rifacendosi alle inchieste del nascente Regno d'Italia, voleva ritrarre la realtà dei ragazzi sfruttati in miniera, una particolare categoria di vinti. E così fa svelandoci anche una grande verità: gli uomini fanno gruppo contro un diverso per sentirsi esistere, per sentirsi forti.
Grazie allo scrittore verista, è stata realizzata, il 16 marzo 2015, la prima giornata dedicata alla cultura della non violenza nelle scuole siciliane, dal titolo "Aiutiamo Rosso Malpelo". La scuola infatti rappresenta oggi un terreno fertile per il bullismo e il 41 percento degli studenti ne è coinvolto con un ruolo attivo, come risulta dalle ricerche condotte dagli anni 80 ad oggi, periodo in cui il fenomeno è diventato oggetto di forte interesse.
La parola «bullo» fu usata per la prima volta da Tommaso Garzoni, erudito nato a Bagnacavallo, in una sua opera, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, pubblicata a Venezia nel 1585. In quest'opera, il termine era affiancato a «bravazzi, spadaccini e sgherri di piazza». Il primo a registrare questo termine in un dizionario fu Alfredo Panzini, nel senso di «smargiasso, bravaccio, teppista». Il significato della parola si associa pertanto fin dall'inizio ad un'idea di violenza organizzata.
Oggi è diventata una moda nelle scuole colpire chi è diverso: chi studia, chi è disabile, chi è grosso, chi è timido. E l'aggressione è sempre perpetrata di fronte agli altri compagni e immortalata dai telefonini. Si aggredisce e si ferisce anche su gruppi Whatsapp e Facebook. E, come ai tempi di Verga, di bullismo si muore. O comunque si muore dentro.
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